lunedì 7 settembre 2009

qualche link sulla fascistissima equiparazione nazismo-comunismo

Sul patto Molotov-Ribbentrop
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18405

La storia rovesciata… Sulle origini della II guerra mondiale
http://www.contropiano.org/Documenti/2009/Settembre09/03-09-09StoriaRovesciata.htm

Patto Ribbentrop–Molotov le colpe dell’Europa
http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=29826

la fine naturale di uno stato fondato sull'apartheid

alleati fascisti (mettiamoci anche l'Alemanno con la croce celtica e le nomine di naziskin):
http://rete-eco.it/europa-usa-etc/british-fascists-with-the-israeli-flag.html

e neonazi israeliani:
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3772726,00.html

quando il nazionalismo armato viene prima di tutto, la fine è già scritta. L'Italia unita dalle armi dei Savoia passò in 61 anni al fascismo, la Germania di Sedan ce ne mise uno in più per diventare nazista. Israele è nato nel 1948, il calendario è spietato

sabato 18 aprile 2009

la lezione di Auschwitz e Obama

il signor Obama ha pubblicizzato le tecniche di tortura autorizzate da Bush e messe in atto dai suoi volenterosi carnefici. COntemporaneamente ha datto l'assoluzione preventiva agli agenti che le hanno eseguite, dicendo «È gente che ha fatto il proprio dovere».
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=54887&sez=HOME_NELMONDO
lo diceva anche Eichmann e giustamente dichiarazioni del genere non gli salvarono la vita, perchè la lezione di Auschwitz è che di fronte a ordini criminali fare il proprio dovere è disubbidire.
In 3 mesi da "democratico" a SS.
Niente male, Reichsfuhrer Obama

venerdì 17 aprile 2009

l'Alba di un mondo nuovo

Nasce il Sucre, moneta alternativa dell'America Latina
''Il Sucre è nato», ha detto il presidente venezuelano Hugo Chavez, dopo la firma dell'accordo posta oggi nell'ambito di una riunione dell'Alba a Cumana (circa 300 chilometri ad est di Caracas) a un trattato che istituisce il sistema unitario di compensazione regionale.
I Paesi che fanno parte dell'Alternativa bolivariana per le Americhe (Alba) - Bolivia, Cuba, Repubblica Dominicana, Honduras, Nicaragua e Venezuela - più l'Ecuador, hanno oggi raggiunto un accordo per la creazione di una moneta unica regionale, Sucre appunto, che funzionerà come una 'moneta virtuale' da utilizzare per l'interscambio tra gli stessi paesi dell'Alba. Messo in cantiere da tempo nell'ambito dell'Alba, il Sucre mira a creare uno strumento di indipendenza commerciale, sostituendo negli scambi le monete nazionali, ma anche il dollaro, dove utilizzato. Alba è un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell'America Latina ed i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba nel 2004 in alternativa all'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Usa.

venerdì 20 febbraio 2009

la lotta dura paga sempre: impariamo dai lavoratori della Guadalupa

Guadalupa; Ventisettesimo giorno sciopero generale,ancora scontri
Pointe-a-pitre (France), 17 feb. (Apcom) - Barricate spontanee sulle strade, scontri e tensione crescente in diversi comuni dell'isola di Guadalupa, nelle Antille francesi, paralizzata da 27 giorni da uno sciopero generale, in protesta contro la madrepatria. Anche nella vicina Martinica, in sciopero da 11 giorni, la situazione è ugualmente bloccata e 15mila persone sono scese in piazza ieri sera a Fort-de-france. Una manifestazione di solidarietà si è svolta ieri sera a Parigi con la partecipazione di migliaia di persone della sinistra, al grido di "Finita la colonizzazione!" "Antille e madrepatria, yes we can!", "Abbasso la grande distribuzione". Sordi alla richiesta di tregua del segretario di Stato all'Oltremare francese Yves Jego, e all'appello "al sangue freddo" del presidente (partito socialista) della regione Victorin Lurel, manifestanti e scioperanti hanno moltiplicato gli scontri e gli atti di violenza. L'annuncio del presidente della repubblica Nicolas Sarkozy di un appuntamento giovedì con gli eletti di tutti i dipartimenti d'Oltremare - prima iniziativa diretta del capo dello stato nella crisi antillese - non ha influito sulla determinazione dei manifestanti a continuare lo sciopero fino a quando non saranno accolte le loro richieste. Queste isole, ad oltre 7mila chilometri di distanza dalla Francia, meta delle vacanze dei francesi, conoscono una gravissima crisi sociale ed economica. Il tasso di disoccupazione è del 22% nella Guadalupa (450.000 abitanti) e nella Martinica (400.000 abitanti). Il Pil pro capite è appena il 60% della media francese. In totale nei Dipartimenti d'Oltremare nel Pacifico e nell'Oceano indiano vivono 2,3 milioni di abitanti.
http://www.apcom.net/news/rss/20090217_103000_1bb4b9d_56428.html

Guadalupa; Fillon propone aumento 200 euro per stipendi più bassi

Parigi, 19 feb. (Ap) - Il primo ministro francese Francois Fillon ha dichiarato che il governo di Parigi è pronto ad andare incontro alle richieste degli abitanti di Guadalupe e "propone un aumento di 200 euro per i salari più bassi". La sua proposta, ha spiegato il premier su Rtl, sarà sottoposta a "patronato e sindacati" di Guadalupa già in mattinata. FIllon ha denunciato il clima di violenza che si è manifestato in queste ultime settimane sull'isola delle Antille francesi e ha condannato l'uccisione di un sindacalista: "Un crimine commesso da delinquenti in cui le forze dell'ordine nono sono affatto implicate".
http://www.apcom.net/newsesteri/20090219_195357_46aa7ed_56589.shtml

giovedì 19 febbraio 2009

perchè non parlo quasi mai dell'Italia

perchè siamo Il popolo più analfabeta, e abbiamo la borghesia più ignorante d'Europa (cit.). Per cui il popolo non è capace, politicamente, moralmente, e intellettualmente, di ribellarsi, e la borghesia, ignorante perchè mai classe dirigente, ma sempre classe parassitaria, ha i piani che ho descritto in due interventi su una mailing list che accorpo qui sotto.

i sanfedisti italioti (clero, mafia, corporazioni professionali, pseudoimprenditori buoni a far soldi solo tagliando gli stipendi) continueranno a fare profitti sulla pelle dei lavoratori, a
costo di ridurli tutti in miseria, ma l'hanno già fatto 2 volte.
La borghesia commerciale italiana (e veneziana in particolare), che
aveva inventato il capitalismo nel '400, quando con la scoperta
dell'America vide la sua scomparsa dalla mappa del commercio
internazionale a favore delle potenze atlantiche cosa fece? Si comprò
le terre e continuò a ingrassare a spese dei contadini, e così
l'economia italiana si fermò per 3 secoli, ma tanto loro la pancia
l'avevano sempre piena, visto che erano i cafoni a pagare la stasi.
La seconda volta fu col fascismo, quando di fronte alla sfida
rappresentata da un proletariato capace di portare avanti le sue
rivendicazioni anzichè diventare socialdemocratica e concedere salari
decenti agli operai che avrebbero ricambiato diventando consumatori a
livelli USA e quindi creando le condizioni per una crescita economica
poderosa, preferì rinchiudersi nelle proprie proprietà e usare i
picchiatori fascisti per tutelare l'ordine, a costo di bloccare, come
avvenne, l'economia italiana per 20 anni.
Adesso si sta tornando alla stasi economica (e alla miseria di massa)
dell'età post-tridentina e dell'era fascista, che ci sia un regime
totalitario compiuto o meno.
E' proprio questa la forza coagulante del regime
berlusconiano: Berlusconi (leggasi Gelli) ha capito da tempo che
l'economia italiana è strutturalmente incapace di reggere la sfida
della globalizzazione e ha elaborato un progetto politico conseguente:
basta con la società dei due terzi, col welfare state, con la pretesa
che tutti si facciano le ferie tutti gli anni; tanto non ce lo potremo
più permettere, dividiamo la società italiana tra un decimo di
privilegiati che continuerà in eterno a far la bella vita e il resto
che si scanna nella guerra tra i poveri, perchè al tenore di vita
attuale dovrà rinunciare, con le buone (manganello catodico che ti
convince che non esiste la società ma solo il singolo e quindi se ti
licenziano è colpa tua che sei un fallito e non del padrone che
scarica su di te la sua incapacità di adeguarsi al mercato) o con le
cattive (Genova 2001, botte agli operai come a Milano qualche giorno fa).
E' chiaro che alla chiamata alle armi i sanfedisti rispondono con
entusiasmo e sono pronti a collaborare cacciando dalla spartizione del
reddito i lavoratori. Per cui se ieri si produceva 100, il padrone si
prendeva 50 e i 10 operai 10 a testa, domani si produrrà 60 e il
padrone il suo 50 se lo tiene tutto, e poi sono cazzi degli operai
spartirsi un quinto del reddito...
Ecco perchè non fanno niente di fronte alla crisi: perchè non li
tocca. Se si produce la metà, loro si prendono tutto e non lasciano
niente ai lavoratori, semplice e lineare. E' quello che sta succedendo
adesso con le reazioni furiose di tutta la maggioranza (e persino
della CISL, ma che siano sindacato giallo ormai è palese) alla
proposta di Epifani di aumentare le tasse sui redditi più alti, oltre
i 100000 euro: nessuno che guadagna così tanto muore di fame se paga
qualche migliaio di euro in più di tasse ogni anno, eppure non
vogliono mollare neppure quell'elemosina...
la borghesia italiana ha già deciso che anche questa volta la crisi la
pagheremo noi. Solo che noi lo sappiamo, tutta quella marea di futuri
poveri che credevano di non essere più proletari solo perchè erano
diventati piccoli imprenditori, o impiegati, o chissà che altro, non
lo sa, ed è incazzata nera. Ed ecco che per loro c'è il capro
espiatorio extracomunitario, che è molto più comodo dell'ebreo del
'38, visto che ce ne sono molti di più da vessare...
http://it.groups.yahoo.com/group/marxiana/message/5315
http://it.groups.yahoo.com/group/marxiana/message/5317

domenica 8 febbraio 2009

atti del seminario "La guerra israelo-occidentale contro Gaza" tenutosi a Roma il 24 gennaio 2009

Seminario ʺLa guerra israelo‐occidentale contro Gazaʺ
Roma 24 gennaio 2009
Centro Congressi Cavour
Sessione di apertura

Perché questo seminario
Alfredo Tradardi ISM‐Italia

Panel 1: Un nuovo secolo di barbarie
Coordina Biancamaria Scarcia Università di Roma

Genocidio a Gaza e Pulizia Etnica in Cisgiordania
Ilan Pappè Exeter University

La Politica Italiana e Europea in Medio Oriente
Giulietto Chiesa Europarlamento

Le Vere Ragioni della Crisi Politica Palestinese
Karma Nabulsi Oxford University

Il Modello Israeliano di Occupazione e Repressione
Giorgio S. Frankel Giornalista

Panel 2: Responsabilità e complicità dellʹEuropa

La Catastrofe dei Media Occidentali
Vladimiro Giacchè Analista politico

Medio Oriente, Escalation Militare, Rischi di Guerra Nucleare
Angelo Baracca Università di Firenze

Le Simmetrie Asimmetriche
Sergio Cararo Giornalista

La Risposta Italiana allʹAppello Palestinese al Boicottaggio (BDS)
Diana Carminati Università di Torino

Le Nostre Responsabilità e i Nostri Impegni
Alfredo Tradardi ISM‐Italia

Oltre Totem e Tabù, note a margine del saggio di Ilan Pappé
Flavia Donati Psichiatra

Ancora un Tradimento dei Chierici! (lʹultimo?)
Angelo DʹOrsi Università di Torino

link
link2

venerdì 6 febbraio 2009

Il sionismo è una malattia psichiatrica

“Gli Israeliani non sono mai stati particolarmente gentili gli uni con gli altri. Questa è una delle ragioni per cui sono andata via. Quando avevo vent’anni ho cominciato ad essere stanca del clima di scortesia, di acrimonia e di rancore intono a me. Era un posto duro dove vivere, non per i nostri “nemici”, ma per come le persone si trattavano tra di loro…L’unica cosa che poteva unire le persone e tirar fuori temporaneamente un pò di gentilezza e di senso di solidarietà era la sensazione di trovarsi sotto una minaccia collettiva e in particolare di portare avanti una guerra per il bene comune. ”
“Israele e forse anche il resto del mondo, rifiutano di vedere che i problemi di Israele sono il risultato diretto del profondo trauma subito dagli Ebrei e delle sue conseguenze. La risposta israeliana al trauma è stata quella di armarsi fino ai denti, e di diventare un paese incredibilmente aggressivo, mentre perpetrava al suo interno e all’esterno il mito del vittimismo e della bontà. Come psicoterapeuta riconosco questa reazione al trauma. Alcune persone traumatizzate rispondono ad esso diventando molto forti e spaventosi. Questa è la reazione di chi è stato ferito, e una risposta al desiderio di non essere feriti di nuovo.”
“Sfortunatamente questo non è un modo buono o sano di vivere. Questa è un’esistenza che perpetua i conflitti interni, conduce all’isolamento e invita gli altri all’animosità. E’ difficile trasmettere buona volontà e gentilezza nel mondo quando il proprio mondo interno è basato sulla ricerca dell’avversario. Quello che è vero per i singoli individui può essere vero anche per le società intere. Israele ha avuto la possibilità di guarire il suo traumatizzato passato Ebreo ma invece ha scelto di perpetrare il trauma e di trasmetterlo alle generazioni successive. La vera creazione dello stato di Israele è una reazione al trauma. Se conoscete le dinamiche del trauma e le soluzioni che le persone cercano di trovare rispetto ad esso, potete capire perchè l’esistenza di Israele è sempre stata piena di problemi. Il fatto che Israele non abbia mai usato il suo sistema educativo e le istituzioni nazionali per facilitare la guarigione dal trauma è triste, ma non inusuale. Il trauma diventa così tanto una parte dell’identità della persona che ne soffre, che guarire significa cambiare il fondamento profondo di se stessi, qualcosa che la maggior parte delle persone, lasciate da sole, sono raramente preparate a fare. ”
“Il trauma è spesso accompagnato dalla negazione e le persone trascorrono le loro vite a cercare soluzioni al di fuori di sè. Nelle risposte aggressive e violente ai traumi, le persone sono portate a credere che sia ‘quella persona’ o ‘quel gruppo’ a causare il loro problema, e provano a fare qualcosa per ferirli o eliminarli. Le persone eventualmente vengono in terapia quando hanno provato tutto e realizzano che nessuna misura esterna può risolvere il loro problema, che deve esserci qualcosa in loro che devono mettere a posto. Sfortunatamente non tutti i tipi aggressivi vengono in terapia. Molti di loro finiscono in galera. Le persone con traumi irrisolti possono essere distruttive per gli altri, ma in fin dei conti, stanno vivendo un’esistenza insostenibile e sono distruttive per se stesse. Molte delle soluzioni che adottano durante la loro vita sono controproducenti e finiscono per danneggiare loro stessi, tanto quanto feriscono gli altri.”
“Gli Israeliani hanno assunto i Palestinesi come loro problema perenne, così da avere qualcuno da maledire ogni volta che il loro trauma raggiunge il punto clinico d’ingestibilità. Se Israele avesse voluto risolvere i suoi problemi con i Palestinesi, avrebbe potuto farlo molto tempo fa. Ma per fare questo Israele avrebbe dovuto compromettere il suo sogno razzista ed antidemocratico di costituire uno stato esclusivamente ebreo. E costituire uno stato esclusivamente ebreo è una reazione al trauma degli Ebrei, basata sulla semplice idea che gli Ebrei non sono al sicuro con i Non-ebrei e perciò hanno bisogno di un loro stato dove possono vivere separati dagli altri e quindi salvi. Abbandonare questo sogno richiederebbe una completa rivalutazione dell’identità e del sistema di valori israeliani ed ebrei. Non penso che Israele sia pronto per questo. Guarire è qualcosa che sfortunatamente, poche persone sono preparate a fare e immagino che lo stesso valga per intere società.”
Avigail Abarbanel

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giovedì 5 febbraio 2009

Obama e le guerre commerciali

Nonostante lo sforzo di Obama di presentare al mondo il volto morbido dell'egemonia americana, sulle questioni di fondo, quelle dei rapporti economici, il suo esordio appare addirittura più aggressivo di quello dell'amministrazione Bush. Molto preoccupante, a detta della maggior parte degli analisti economici, è stata l'uscita la settimana scorsa del nuovo ministro del Tesoro Usa, secondo il quale la Cina si sarebbe resa colpevole di aver manipolato la sua valuta, lo yuan renmimbi. La gravità dell'affermazione sta nel fatto che, secondo gli accordi tra Usa e Cina, in caso di manipolazione valutaria, gli Usa si riterrebbero autorizzati ad introdurre dazi per le merci importate dal paese estremo orientale. Da tempo gli Usa premono affinché la Cina rivaluti la sua valuta, che, a detta degli americani, è sottovalutata per facilitare le esportazioni cinesi.
Ma, mentre il precedente ministro del Tesoro, Paulson, preferiva assumere un atteggiamento "morbido", che prevedeva una rivalutazione graduale nel tempo, l'amministrazione Obama sembra meno disponibile a concedere dilazioni. Inoltre, i primi passi di Obama sono caratterizzati dalla ripresa del protezionismo, che per l'amministrazione repubblicana rappresentava una specie di bestemmia economica. Infatti, il pacchetto di stimolo economico anticrisi di oltre 800 miliardi di dollari che Obama presenterà al voto del Parlamento Usa è legato alla clausola del buy american, specialmente rivolta contro le importazioni di acciaio. Mentre in precedenza l'applicazione di tale norma era limitata alle spese per le autostrade, ora verrà estesa alle forniture per tutti i lavori pubblici.
Anche il sostegno finanziario all'industria automobilistica Usa è diretto ai soli produttori di Detroit, a proprietà Usa. E questo sebbene case giapponesi e tedesche abbiamo molti impianti produttivi, specie nel sud degli Usa, e sebbene ci siano casi di prodotti, come la Toyota Sequoia, che hanno un contenuto americano dell'80%, superiore ad esempio a quello della Patriot, prodotta dalla Chrysler, che, sebbene considerata americanissima, è costruita con lavoro americano solo al 60%. Di fronte al protezionismo Usa si sono levate le proteste di Ue, Australia e Canada. Di particolare interesse è stata la critica che, a Davos, è stata rivolta agli Usa da Cina e Russia. Sia Wen Jintao che Putin hanno puntato l'indice sulle responsabilità degli Usa nello scoppio della crisi. Secondo Wen la crisi è stata causata da inappropriate scelte macroeconomiche basate sul basso risparmio e sugli alti consumi, oltre che sulla eccessiva espansione di istituzioni finanziare alla cieca ricerca di profitto. Putin è stato ancora più diretto, sostenendo che la crescita globale ha subito danni perché un unico centro regionale stampa moneta senza tregua e consuma ricchezza materiale, mentre altri centri producono merci a buon mercato. Una chiara allusione agli Usa che hanno accumulato un enorme debito commerciale estero (specie con l'estremo oriente) e lo finanziano stampando carta (dollari), contando sul fatto che il dollaro ricopre il ruolo di moneta internazionale.
Inoltre, gli Usa finanziano con la vendita di titoli del tesoro in dollari anche il loro enorme debito pubblico federale. Non a caso sia Wen che Putin rivendicano una migliore regolazione delle varie valute di riserva e lo sviluppo di "molteplici valute di riserva regionali in aggiunta al dollaro". Molto interessante è stata anche la convergenza tra Cina e Germania, la cui cancelliera Merkel oltre ad esprimersi contro il protezionismo Usa ha rivendicato per l'Onu anche un ruolo di supervisione economica mondiale, con la costituzione di una sorta di Consiglio generale economico. La direzione presa dall'amministrazione Obama sembra rivolta ad accentuare la politica del passato, basata sull'ottenere finanziamenti dai paesi con grandi surplus commerciali. Ricordiamo che i maggiori possessori di titoli di stato Usa sono Giappone, Cina, Brasile e Russia e che il tesoro Usa si appresta a immettere sul mercato 2mila milardi di dollari in titoli di stato per finanziare le enormi spese anticicliche. Solo che, a differenza del passato, questo drenaggio finanziario, oltre ad aggravare la già pesante situazione di squilibrio nei conti mondiali, non verrebbe neanche compensato con l'acquisto Usa delle merci dei paesi finanziatori.
Per la Cina in particolare il protezionismo si concretizzerebbe in una vera guerra commerciale. Ad esempio, suo è il 30% dell'acciaio importato dagli Usa. Già oggi, inoltre, il Pil cinese è decresciuto sensibilmente, e sono sempre di più gli operai che lasciano le zone industriali per ritornare nelle campagne, con conseguenze estremamente pesanti per lo sviluppo del Paese. Dietro la retorica "universalistica" e "messianica" del discorso d'insediamento di Obama si delinea il fermo proposito di far pagare la crisi al resto del mondo, dopo averla scatenata con la pratica dell'indebitamento, riaffermando una egemonia che però non ha più le basi economiche di un cinquanta anni fa, quando gli Usa contavano da soli il 60% dell'export e il 50% del Pil mondiale. Guerre commerciali e difesa ad oltranza del ruolo unico di valuta internazionale da parte del dollaro non fanno presagire nulla di buono. Anche considerando che le guerre commerciali ed il protezionismo storicamente non hanno mai favorito la pace tra i Paesi.
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domenica 1 febbraio 2009

Il divieto della tortura che non vieta la tortura

Se siete sdraiato su un tavolo da orbitorio respirando ancora, con il vostro torturatore piegato su di voi, certo non vi può importare molto se questo è americano o una semplice recluta pagata dagli Stati Uniti.
Questa settimana, quando il presidente Obama ha apertamente dichiarato che "gli Stati Uniti non tortureranno" molte persone hanno creduto erroneamente che avrebbe interrotto la pratica, quando di fatto l'ha semplicemente ricollocata.
L'Ordine Esecutivo vieta ad alcuni — non a tutti — funzionari USA di torturare ma non proibisce a nessuno di loro, lui stesso incluso, di sponsorizzare la tortura all'estero.
In realtà, il suo cambiamento di politica incide solamente su una esigua percentuale di torture delle quali sono colpevoli gli USA e potrebbe di fatto portare a un incremento in tutto il mondo della tortura sostenuta dagli USA.
L'inganno sta nel fatto che a partire dal Vietnam, quando pure le forze USA spesso torturavano direttamente, gli USA hanno visto principalmente la tortura fatta per loro per procura — pagando, armando, addestrando e consigliando degli stranieri per farlo, ma solitamente stando attenti a tenere gli americani almeno ad un cauto passo di distanza.
Cioè, gli USA hanno avuto la tendenza a farlo in quel modo finché Bush e Cheney hanno cambiato protocollo e si sono avuti molti americani che usavano direttamente le mani e talvolta prevendevano fotografie digitali.
Il risultato è stato un fallimento di pubbliche relazioni che ha fatto infuriare l'establishment USA poiché smascherare davanti a tutto il mondo le tecniche USA ha ridotto il potere degli USA.
Ma, nonostante l'indignazione, la veirità era che sotto l'amministrazione Bush/Cheney le torture eseguite direttamente da americani sono state una trascurabile percentuale di tutte le torture che eseguite dai clienti degli USA.
Per ogni tormento inflitto direttamente dagli americani in Iraq, Afghanistan, Guantanamo e nelle prigioni segrete, ve ne sono stati molti di più impartiti da forze straniere sponsorizzate dagli USA.
Quelle forze operavano ed operano con il sostegno militare, finanziario e di intelligence o di altro tipo degli USA in Egitto, Israele, Arabia Saudita, Etiopia, Pakistan, Giordania, Indonesia, Thailandia, Uzbekistan, Colombia, Nigeria e Filippine, per menzionare qualche posto, per non parlare delle torture senza mani americane da parte di iracheni ed afgani appoggiati dagli USA.
Ciò che la dichiarazione di Obama apparentemente bandisce è quella piccola percentuale di tortura ora eseguita da americani mentre si mantiene intatta la schiacciante maggeranza del sistema di torture, che viene eseguita da stranieri sotto protezione USA.
Obama potrebbe smettere di appoggiare forze straniere che torturano, ma ha scelto di non farlo.
Invece, il suo Ordine Esecutivo si riferisce soltanto al trattamento di "...un individuo in custodia o sotto il controllo effettivo di un ufficiale, impiegato o altro agente del governo degli Stati Uniti, o detenuto all'interno di una struttura posseduta, diretta o controllata da un dipartimento e agenzia degli Stati Uniti, in qualsiasi conflitto armato...",il che significa che non proibisce neppure la tortura diretta da parte di americani al di fuori dell'ambito del "conflitto armato", e cioè non bandisce neppure molte delle torture praticante direttamente dagli americani, dal momento che molti regimi repressivi non si trovano in un conflitto armato.
Ed anche se, come afferma Obama, "gli Stati Uniti non tortureranno", possono ancora pagare, addestrare, equipaggiare e consigliare torturatori stranieri, cin la certezza che loro, ed i loro protettori USA, non affrontino la giustizia locale o internazionale.
Questo è il ritorno alla situazione precedente l'amministrazione Bush, il regime della tortura da Ford fino a Clinton, che, anno per anno, ha spesso prodotto più supplizi appoggiati dagli USA di quanto ne siano stati provocati durante gli anni di Bush/Cheney.
Sotto il vecchio — ora di nuovo in vigore — regime di tortrue per procura, gli americani insegnavano l'interrogatorio/tortura, quindi stavano nella stanza più vicina mentre le vittime urlavano, imbeccando le domande ai loro allievi stranieri. Questo è il modo nel quale gli USA lo facevano in El Salvador a partire dall'amministrazione di JFK fino a quella di Bush Sr. (Per i dettagli vedi il mio "Dietro le squadre della morte: un rapporto esclusivo sul ruolo degli USA nel terrore ufficiale in El Salvador", The Progressive, maggio 1984 ; il rapporto della Commissione Servizi Segreti del Senato USA che ha provocato la scritturadi quell'articolo è ancora classificato, ma il fatto che gli USA fornissero gli interrogatorii ai torturatori mi è stato confermato da senatori della commissione. Vedi anche il mio "Confessioni di un ufficiale delle squadre della morte", The Progressive, marzo 1986 ed il mio "Commento", The New Yorker, 15 ottobre 1990, [a proposito della legge, gli USA ed El Salvador]).
In Guatemala, sotto Bush Sr. e Clinton (mentori della politica estera di Obama), gli USA appoggiarono lo squadrone della morte G-2 dell'esercito che teneva archivi completi sui dissidenti e quindi faceva loro l'electroshock o tagliava loro le mani. (L'archivio/sistema di sorveglianza fu avviato per loro negli anni '60 e '70 da CIA/Dip. Stato/AID/forze speciali; per la storia vedi "Dietro le squadre della morte", citato sopra ed i libri del Prof. Michael McClintock).
Gli americani sul terreno nell'operazione guatemalteca, alcuni dei quali ho incontrato e menzionato, hanno effettivamente collaborato a dirigere il G-2 ma, loro stessi, sono stati cauti sulle sue camere di tortura. (Vedi il mio "La squadra della morte della CIA", The Nation [US], 17 aprile 1995, "La squadra di campagna", The Nation [US], 5 giugno 1995, scambio di lettere con l'ambasciatore USA Stroock, The Nation [US], 29 maggio 1995 e Allan Nairn e Jean-Marie Simon, "Burocrazia di morte", The New Republic, 30 giugno 1986).
Vi è stata una storia simile nella Haiti di Bush Sr. e Clinton — un'operazione gestita dalla gente di Obama di oggi — dove la DIA (Defense Intelligence Agency) ha contribuito ad avviare il gruppo terroristico FRAPH, la CIA ha pagato il suo capo ed il FRAPH stesso ha usato i machete sui civili haitiani, torturando ed uccidendo per delega degli USA. (Vedi il mio "Dietro i paramilitari di Haiti: il nostro uomo nel FRAPH", The Nation [US], 24 ottobre 1994 e "E' il nostro S.O.B.""This Week" della ABC TV dal segretario di stato USA Warren Christopher).
Nell'odierna Thailandia — un paese che di solito non viene in mente quando la maggior parte della gente pensa alla tortura — la polizia speciale ed i militari ricevono attrezzatura ed addestramento USA per cose come la "target selection" [lett:"selezione del bersaglio"], e quindi escono e torturano musulmani malesi thailandesi nel profondo sud ribelle e talvolta anche rifugiati birmani (principalmente buddisti) e lavoratori sfruttati del nord e della costa occidentale.
Non molto tempo fa ho visitato un importante inquisitore thai che ha parlato apertamente della tortura paraticata da esercito/polizia/servizi segreti e quindi ha concluso la nostra discussione dicendo "Guarda questo" e mi ha invitato nella sua sala interna.
Era un museo aggiornato di targhe, fotografie e premi dei servizi segreti USA ed occidentali, compresi encomi del centro antiterrorismo della CIA (allora diretto da persone ora alle dipendenze di Obama), sue fotografie con alti personaggi USA, incluso George W. Bush, una medaglia avuta da Bush, svariati certificati di addestramento di servizi segreti/FBI/militari USA, una sua fotografia con un collega israeliano, accanto di un carro armato nei Territori Occupati ed attrezzi e cimeli da interrogatorio del Mossad, Shin Bet e Singapore e altri.
Mentre uscivo, l'agente dell'intelligence thai osservò che presto sarebbe tornato a visitare Langley.
Il suo ruolo è tipico. In tutto il mondo ve ne sono migliaia come lui. La tortura USA per procura rende insignificante quella a Guantanamo.
Molti americani, a loro merito, odiano la tortura. Ma la scappatella di Bush/Cheney l'ha smascherata.
Ma per fermarla devono comprendere i fatti e capire che il divieto di Obama non la ferma ed in realtà potrebbe persino conciliarsi con un incremento del crimine della tortura sponsorizzato dagli USA.
Tramite l'azione per procura, stanotte il sistema avanzerà inesorabilmente. Altri, shock, soffocamenti, profonde bruciature. E migliaia di menti complesse convergeranno su un solo pensiero: 'Per favore, lasciatemi morire'.
Allan Naim
link
vedi anche:

Gli ordini di Obama lasciano intatte la tortura e la detenzione indefinita
link

come Israele ha rispettato la tregua prima della guerra che aveva deciso di fare a prescindere dalle azioni di Hamas

Il 16 giugno 2008 Hamas e il governo Israeliano firmano una tregua, che prevede tra le altre cose la fine reciproca di tutte le attività militari nella Striscia di Gaza e la fine dell'embargo con l'apertura di tutti i passaggi commerciali.

Durante la tregua però decine di palestinesi vengono uccisi e moltissimi sono feriti, sia a Gaza che in Cisgiordania.

Anche l'embargo di Gaza che sarebbe dovuto cessare con la tregua continua invece praticamente senza interruzione.
Tra luglio e novembre 2008, durante la "tregua", sono 55 i malati che muoiono a causa dell'embargo e della chiusura dei valichi, per mancanza di medicine o perché viene negato loro il permesso di uscire da Gaza per ricevere cure mediche in strutture più attrezzate.

L'Egitto tiene chiuso ininterrottamente il valico di Rafah tranne che per periodi brevissimi, di un paio di giorni l'uno, a distanza di settimane tra loro.
Il transito delle merci verso Gaza dai valichi con Israele procede a rilento e per quantitativi contingentati.

In Cisgiordania continua l'edificazione del muro, tutto sul territorio palestinese che viene spezzettato in mille enclavi, separate da 630 checkpoint.
Non solo non vengono evacuati gli insediamenti coloniali illegali (come era stato previsto dalla roadmap), ma ne vengono costruiti di nuovi.
Le manifestazioni pacifiche contro il muro vengo duramente represse con morti e feriti.

Il 4 novembre l’esercito israeliano attacca la striscia di Gaza, provocando almeno 5 morti.
Hamas risponde con il lancio di razzi contro il territorio israeliano.

Solo questo ultimo episodio viene comunicato dai media. Tutto quello che lo ha preceduto non esiste. La responsabilità politica della fine della tregua viene quindi attribuita solo ed esclusivamente a Hamas.
Un vero e proprio falso storico.

Per dare la possibilità di conoscere la vera storia di questa tregua che il regime sionista non ha mai voluto rispettare, abbiamo ricostruito questa cronologia degli eventi in Palestina tra il 19 giugno e il 19 dicembre 2008, servendoci dell'unica fonte di informazione disponibile, quella dell'agenzia Infopal. Una fonte sicuramente di parte che però elenca senza censure tutto quanto è avvenuto, indipendentemente dalla responsabilità israeliana o palestinese, riportando tanto il lancio di missili da Gaza, quanto gli attacchi dell'esercito israeliano.

Pur non avendo potuto riportare tutto (ma chi volesse approfondire può visitare il sito www.infopal.it per leggere la cronologia completa), il quadro che esce da questa cronologia è a dir poco sconvolgente nei confronti della nostra certezza di essere correttamente informati.

Anche se formalmente la tregua riguardava solo Gaza, la cronologia elenca sia episodi avvenuti a Gaza che episodi avvenuti in Cisgiordania.

Questo per due motivi. Il primo è che nonostante oggi la Palestina sia, non certo per propria responsabilità, divisa in due enclavi circondate da Israele, quello che avviene in una non può non influire anche sull'altra.

Il secondo motivo è che c'è una convinzione molto diffusa, anche se profondamente errata, che tutti i problemi siano circoscritti a Gaza perché Gaza è governata da Hamas.
Ma nella Cisgiordania governata dal "moderato" (per usare un eufemismo) Abu Mazen non è passato giorno senza un attacco dell'esercito israeliano, un sequestro di cittadini palestinesi, una razzia ad opera di coloni israeliani.

La differenza con Gaza è solo quella che in Cisgiordania il popolo palestinese è abbandonato dal proprio governo e lasciato alla mercé dell'esercito sionista.
La Cisgiordania è oggi solo un protettorato in cui il regime sionista fa il bello e il cattivo tempo.

L'unico problema che c'è con Gaza è che Gaza lotta per non essere ridotta ad un protettorato sionista.

LA TREGUA DEGLI ASSASSINI

Eyad Khanfar (24 anni) - Nablus 24 Giugno
Tareq Abu Ghali - Nablus 24 Giugno
Muhammad Anwar Jamil Abu Sara (14 anni) - Hebron 28 giugno
Talal Said Abed (32 anni) - Kufr Dan 10 luglio
Salim Jumaa Humaid (16 anni) - Khan Yunes 10 luglio
Mahmud Othman Asi (45 anni) - Bani Hassan 11 luglio
Ahmad Husam Yousef Musa (12 anni) - Nil'in 29 luglio
Yousef Ahmad Younes Amira - Nil'in 4 agosto
Hasan Muhammad Hamaid (16 anni) - Betlemme 13 settembre
un cittadino palestinese - Nablus 20 settembre
Abd Al-Qadir Ziyad (17 anni) - Ramallah 15 ottobre
Aziz Arar (20 anni) - Ramallah 16 ottobre
Mohammad Jamal ar-Ramahi - Ramallah 16 ottobre
Mohammed Tahir 'Abahra (67 anni) - Yamun 29 ottobre
Muhammad Ba’lusha - Gaza 5 novembre
Omar Al-Alami - Gaza 5 novembre
Muhammad Awad - Gaza 5 novembre
Wajdi Muharib - Gaza 5 novembre
Ghassan at-Tramsi (29 anni) - Gaza 6 novembre
Mahmoud Siyam - Gaza 12 novembre
Rami Freinah - Gaza 12 novembre
Muhsen Al-Qidrah - Gaza 12 novembre
Isma’il Abu Al-Ola - Gaza 12 novembre
due resistenti palestinesi - Gaza 15 novembre
quattro militanti dei Comitati di Resistenza Popolare - Gaza 16 novembre
militante delle Brigate al-Qassam - Gaza 20 novembre
Hikmat Odeh Said Khalil (48 anni) - Qalandia 26 novembre
Mohammad Abu Thraa (27 anni) - Nablus 2 dicembre


Un elenco (parziale) dei palestinesi uccisi durante i 6 mesi della cosiddetta "tregua". Tutti assassinati da un esercito straniero mentre si trovavano nel loro Paese.
Qualcuno di loro stava protestando come Ahmad Husam Yousef Musa, il dodicenne assassinato a Nil'in, qualcuno si trovava nel luogo sbagliato, come Salim Jumaa Humaid di 16 anni, assassinato a Gaza perché era "troppo vicino" al confine, o come Mohammed Tahir 'Abahra, di 67 anni, ucciso a Jenin senza motivo.
Altri sono stati assassinati mentre difendevano il loro Paese dall'aggressione straniera, come i 5 militanti uccisi il 5 novembre a Gaza. Altri ancora erano nella lista di quelli da uccidere e sono stati assassinati comunque, alla faccia della tregua.

LA TREGUA DELL'INFORMAZIONE

Dal 19 giugno al 19 dicembre 2008 anche la stampa italiana ha osservato una propria tregua e, semplicemente, si è dimenticata di informare su quanto stava succedendo in Palestina.

Ricercando notizie negli archivi informatici del Corriere e della Repubblica ci si accorge che questa "tregua della stampa" è stata violata solo in pochissime occasioni.

Emblematica la prima: il 20 giugno (il giorno successivo all’inizio della tregua) coloni israeliani lanciano dei missili Qassam contro cittadine palestinesi, il 21 giugno l'esercito israeliano spara su pescatori e contadini di Gaza, il 24 giugno invade Nablus (nella Cisgiordania palestinese) e assassina due studenti universitari, a Gaza spara e ferisce un contadino.
Tutto questo, anche se si tratta di fatti riportati dagli stessi quotidiani israeliani, per la stampa italiana non fa notizia.

Lo stesso 24 giugno, dopo i due assassini mirati di Nablus, vengono lanciati da Gaza alcuni missili contro la cittadina israeliana di Sderot ferendo due persone.
Questo invece fa notizia e un laconico articolo di Repubblica titola "Razzi su Sderot violata la tregua". All'interno dell'articolo neppure un cenno alle precedenti violazioni da parte di Israele.
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/06/25/razzi-su-sderot-violata-la-tregua.html]

Il 3 luglio una seconda notizia, sempre da Repubblica: "Con un bulldozer contro un bus palestinese fa strage a Gerusalemme". E nell'articolo viene sottolineato che si tratta di "Un' azione che rompe la tregua appena siglata da Hamas e Israele".
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/07/03/con-un-bulldozer-contro-un-bus-palestinese.html]

Prima di questa "violazione" se ne erano verificate altre. La più grave di tutte a Hebron dove l'esercito israeliano aveva ucciso un ragazzo di 14 anni, Muhammad Anwar Jamil Abu Sara. Poi incursioni militari all'interno del territorio palestinese della Cisgiordania, tentativi di assassini mirati, rapimenti di cittadini Palestinesi, ferimenti, distruzioni di abitazioni, aggressioni di coloni israeliani contro cittadini palestinesi e ancora razzi artigianali sparati da coloni israeliani contro villaggi palestinesi.
Ma durante tutto questo anche Repubblica e il Corriere erano in "tregua" e osservavavano un rigido silenzio stampa.

Il Corriere tace fino 23 luglio quando informa i propri lettori del secondo episodio di attacco con bulldozer: "Kamikaze su una ruspa terrorizza Gerusalemme".
L'articolista del Corriere cita con enfasi l'esternazione di Barack Obama, in quei giorni in visita in Medio Oriente: «Ci ricorda la violenza che gli israeliani hanno affrontato con coraggio ogni giorno, ormai da troppo tempo».
Sulle violenze che i Palestinesi devono affrontare giorno dopo giorno tace Barack Obama e tace anche Davide Frattini che firma l'articolo.
[archiviostorico.corriere.it/2008/luglio/23/Kamikaze_una_ruspa_terrorizza_Gerusalemme_co_9_080723068.shtml]

Altri due articoli del Corriere il 5 e il 6 agosto informano della missione del Movimento Free Gaza che tenta di raggiungere Gaza con due imbarcazioni da Cipro.
Due articoli di impostazione molto "gossip" centrati sul fatto che una delle militanti del Free Gaza è la cognata di Blair: "Il personaggio Giornalista e star di un reality, sostiene la causa palestinese".
[archiviostorico.corriere.it/2008/agosto/05/Gaza_dal_mare_per_sfidare_co_9_080805068.shtml]
[archiviostorico.corriere.it/2008/agosto/06/sorella_Cherie_Blair_sfida_barca_co_9_080806039.shtml]

Un terzo articolo il 25 agosto informa che i 2 battelli pacifisti sono arrivati a Gaza.
[archiviostorico.corriere.it/2008/agosto/24/Gaza_battelli_pacifisti_forzano_blocco_co_9_080824026.shtml]

Nessuna parola sul mitragliamento delle imbarcazioni palestinesi in attesa dei due battelli pacifisti, nessuna parola sui tentativi israeliani di bloccare le imbarcazioni, fosse solo per spiegare come mai hanno impiegato ben 20 giorni per arrivare a Gaza.

Il 17 settembre anche Repubblica pubblica una notizia dal fronte Palestinese. E' coinvolto un volontario italiano, Vittorio Arrigoni ferito mentre si trovava su un peschereccio palestinese e l'articolista deve comunque tranquillizzare l'opinione pubblica "All' Ansa il pacifista ha riferito di «stare bene»".
Neppure un cenno invece all'infinita serie di aggressioni della marina militare israeliana ai danni dei pescherecci palestinesi. Il fatto è trattato come un episodio isolato.
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/17/israeliani-contro-palestinesi-attacco-in-mare-pacifista.html]

Poi Repubblica tace. E tace sempre il Corriere.
Tacciono quando Israele uccide, quando Israele ferisce, tacciono anche quando il 4 novembre 2008 Israele attacca Gaza uccidendo 5 palestinesi e decretando così la fine della tregua.

Repubblica si risveglia solo il 16 novembre, quando ormai la tregua è rotta da due settimane e titola "Gaza, ancora attacchi di Hamas. Barak: pronti a una rappresaglia".
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/11/16/gaza-ancora-attacchi-di-hamas-barak-pronti.html]

E il giorno successivo rincara la dose: "I razzi di Hamas rompono la tregua rappresaglia israeliana su Gaza"
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/11/17/razzi-di-hamas-rompono-la-tregua.html]

Né Repubblica, né il Corriere si degnano di informare i propri lettori quando il 18 novembre un cittadino italiano, Vittorio Arrigoni, viene sequestrato e detenuto illegalmente nei carceri israeliani.

Dopo aver così bene informato i propri lettori Repubblica si può permettere di "inorridire" di fronte allo slogan "Israele assassina, giù le mani dalla Palestina" durante la manifestazione del 30 novembre a Roma.
Nel pezzo un'altra chicca di disiformazione: scrivendo del muro costruito da Israele all'interno del territorio palestinese della Cisgiordania, che ne riduce l'estensione territoriale della metà, l'articolista scrive il "muro sorto sul territorio di Israele". (!)
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/11/30/corteo-per-la-palestina-roma-scontro-sugli.html]

Il Corriere, che nel frattempo ha continuato a tacere, esce con un articolo su Gaza il 15 dicembre: "Hamas: «La tregua è finita» Ma Israele non chiude la porta" .
L'onesto lettore del Corriere, ignorando tutto quanto è successo, gli assassini, i ferimenti, le distruzioni a questo punto dovrebbe naturalmente pensare che i palestinesi sono pazzi. Ed è questo l'obiettivo abbastanza esplicito di Francesco Battistini che firma l'articolo.
Un unico elemento degno di nota in questo articolo è il fatto che si parla dei "venti palestinesi uccisi alla frontiera l' ultimo mese", anche se citando una dichiarazione di Hamas e provvedendo immediatamente ad aggiungere "sorvolando sui Kassam che bersagliano Sderot".
Questo dovrebbe rassicurare un lettore attento del Corriere che avesse dei dubbi sull'elenco dei palestinesi assassinati riportato in questo dossier (e sarebbe legittimo averli per chi si informa solo su certa stampa).
[archiviostorico.corriere.it/2008/dicembre/15/Hamas_tregua_finita_Israele_non_co_9_081215030.shtml]

Se invece fosse un lettore di Repubblica ad avere dubbi lo invitiamo a rileggere con attenzione l'articolo "Gaza si tinge di verde per la festa di Hamas 'Non rinnoveremo la tregua con Israele'" del 15 dicembre.
Nel suo pezzo l'ignoto articolista a ad un certo punto si tradisce e scrive: "una tregua indegna di questo nome viene a scadenza il prossimo venerdì 19 novembre. Non è che non si sia combattuto. L' esercito israeliano ha continuato a fare le sue incursioni nel territorio della Striscia, ma meno di prima. Una ventina di palestinesi, la stragrande maggioranza miliziani, sono stati uccisi. Meno di prima."
[ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/12/15/gaza-si-tinge-di-verde-per-la.html]

Si tratta di due delle rarissime tracce sulla stampa italiana di quello che è successo durante la tregua sionista e che riportiamo nella cronologia che segue
LINK

venerdì 30 gennaio 2009

la coscienza fascista degli ebrei israeliani

A new study of Jewish Israelis shows that most accept the 'official
version' of the history of the conflict with the Palestinians. Is it
any wonder, then, that the same public also buys the establishment
explanation of the operation in Gaza?
A pioneering research study dealing with Israeli Jews' memory of the
conflict with the Arabs, from its inception to the present, came into
the world together with the war in Gaza. The sweeping support for
Operation Cast Lead confirmed the main diagnosis that arises from the
study, conducted by Daniel Bar-Tal, one of the world's leading
political psychologists, and Rafi Nets-Zehngut, a doctoral student:
Israeli Jews' consciousness is characterized by a sense of
victimization, a siege mentality, blind patriotism, belligerence, self-
righteousness, dehumanization of the Palestinians and insensitivity to
their suffering. The fighting in Gaza dashed the little hope Bar-Tal
had left - that this public would exchange the drums of war for the
cooing of doves.
"Most of the nation retains a simplistic collective memory of the
conflict, a black-and-white memory that portrays us in a very positive
light and the Arabs in a very negative one," says the professor from
Tel Aviv University. This memory, along with the ethos of the conflict
and collective emotions such as fear, hatred and anger, turns into a
psycho-social infrastructure of the kind experienced by nations that
have been involved in a long-term violent conflict. This
infrastructure gives rise to the culture of conflict in which we and
the Palestinians are deeply immersed, fanning the flames and
preventing progress toward peace. Bar-Tal claims that in such a
situation, it is hard even to imagine a possibility that the two
nations will be capable of overcoming the psychological obstacles
without outside help.
Scholars the world over distinguish between two types of collective
memory: popular collective memory - that is, representations of the
past that have been adopted by the general public; and official
collective memory, or representations of the past that have been
adopted by the country's official institutions in the form of
publications, books or textbooks.
The idea for researching the popular collective memory of Israeli Jews
was raised by Nets-Zehngut, a Tel Aviv lawyer who decided to return to
the academic world. At present he is completing his doctoral thesis in
the International Center for Cooperation and Conflict Resolution at
Columbia University's Teachers College. The study, by him and Bar-Tal,
entitled "The Israeli-Jewish Collective Memory of the Israeli-Arab/
Palestinian Conflict," examines how official collective memory in the
State of Israel regarding the creation of the 1948 refugee problem has
changed over time.
Bar-Tal became enthusiastic about the idea and, with funding from the
International Peace Research Association Foundation, he conducted a
survey in the summer of 2008 among a representative sample of 500
Jewish Israeli adults. The study demonstrated that widespread support
for the official memory testifies to a lower level of critical
thinking, as well as belief in traditional values, high identification
with Jewish identity, a tendency to delegitimize the Arabs, and
support for taking aggressive steps against the Palestinians.
In a telephone interview from New York, Nets-Zehngut says it is very
clear that those with a "Zionist memory" see Israel and the Jews as
the victims in the conflict, and do not tend to support agreements or
compromises with the enemy in order to achieve peace. This finding, he
explains, demonstrates the importance of changing the collective
memory of conflicts, making it less biased and more objective - on
condition, of course, that there is a factual basis for such a change.
Bar-Tal, who has won international awards for his scientific work,
immigrated to Israel from Poland as a child in the 1950s.
"I grew up in a society that for the most part did not accept the
reality that the authorities tried to portray, and fought for a
different future," he says. "I have melancholy thoughts about nations
where there is an almost total identity between the agents of a
conflict, on the one hand, who nurture the siege mentality and the
existential fear, and various parts of society, on the other. Nations
that respond so easily to battle cries and hesitate to enlist in favor
of peace do not leave room for building a better future."
Bar-Tal emphasizes that the Israeli awareness of reality was also
forged in the context of Palestinian violence against Israeli
citizens, but relies primarily on prolonged indoctrination that is
based on ignorance and even nurtures it. In his opinion, an analysis
of the present situation indicates that with the exception of a small
minority, which is capable of looking at the past with an open mind,
the general public is not interested in knowing what Israel did in
Gaza for many years; how the disengagement was carried out and why, or
what its outcome was for the Palestinians; why Hamas came to power in
democratic elections; how many people were killed in Gaza from the
disengagement until the start of the recent war; and whether it was
possible to extend the recent cease-fire or even who violated it
first.
"Although there are accessible sources, where it is possible to find
the answers to those questions, the public practices self-censorship
and accepts the establishment version, out of an unwillingness to open
up to alternative information - they don't want to be confused with
the facts. We are a nation that lives in the past, suffused with
anxiety and suffering from chronic closed-mindedness," charges Bar-
Tal.
That describes the state of mind in 2000, when most of the pubic
accepted the simplistic version of then-prime minister Ehud Barak
regarding the failure of the Camp David summit and the outbreak of the
second intifada, and reached what seemed like the obvious conclusion
that "there is no partner" with whom to negotiate.
Bar-Tal: "After the bitter experience of the Second Lebanon War,
during which the memory of the war was taken out of their hands and
allowed to be formed freely, the country's leaders learned their
lesson, and decided that they wouldn't let that happen again. They
were not satisfied with attempts to inculcate Palestinian awareness
and tried to influence Jewish awareness in Israel as well. For that
purpose, heavy censorship and monitoring of information were imposed"
during the Gaza campaign.
The professor believes that politicians would not have been successful
in formulating the collective memory of such a large public without
the willing enlistment of the media. Almost all the media focused only
on the sense of victimization of the residents of the so-called "Gaza
envelope" and the south. They did not provide the broader context of
the military operation and almost completely ignored - before and
during the fighting - the situation of the residents of besieged Gaza.
The human stories from Sderot and the dehumanization of Hamas and the
Palestinians provided the motivation for striking at Gaza with full
force.
Nets-Zehngut and Bar-Tal find a close connection between the
collective memory and the memory of "past persecutions of Jews" ("the
whole world is against us," and the Holocaust). The more significant
the memory of persecution, the stronger the tendency to adopt Zionist
narratives. From this we can understand the finding that adults, the
religious public and those with more right-wing political views tend
to adopt the Zionist version of the conflict, while young people, the
secular public and those with left-wing views tend more to adopt
critical narratives.
The atmosphere in the street and in the media during the weeks of the
Gaza war seems to have confirmed the central finding of the study:
"The ethos of the conflict is deeply implanted in Jewish society in
Israel. It is a strongly rooted ideology that justifies the goals of
the Jews, adopts their version, presents them in a very positive light
and rejects the legitimacy of the Arabs, and primarily of the
Palestinians," notes Bar-Tal.
For example, when asked the question, "What were the reasons for the
failure of the negotiations between [Ehud] Barak and [Yasser] Arafat
in summer 2000?" 55.6 percent of the respondents selected the
following answer: "Barak offered Arafat a very generous peace
agreement, but Arafat declined mainly because he did not want peace."
Another 25.4 percent believed that both parties were responsible for
the failure, and about 3 percent replied that Arafat did want peace,
but Barak was not forthcoming enough in meeting the needs of the
Palestinians. (Sixteen percent replied that they didn't know the
answer.)
Over 45 percent of Israeli Jews have imprinted on their memories the
version that the second intifada broke out only, or principally,
because Arafat planned the conflict in advance. Only 15 percent of
them believe the viewpoint presented by three heads of the Shin Bet
security services: that the intifada was mainly the eruption of a
popular protest. Over half those polled hold the Palestinians
responsible for the failure of the Oslo process, 6 percent hold Israel
responsible, and 28.4 percent said both sides were equally
responsible.
Among the same Jewish public, 40 percent are unaware that at the end
of the 19th century, the Arabs were an absolute majority among the
inhabitants of the Land of Israel. Over half of respondents replied
that in the United Nations partition plan, which was rejected by the
Arabs, the Arabs received an equal or larger part of the territory of
the Land of Israel, relative to their numbers; 26.6 percent did not
know that the plan offered the 1.3 million Arabs a smaller part of the
territory (44 percent) than was offered to 600,000 Jews (55 percent).
Bar-Tal claims that this distortion of memory is no coincidence. He
says that the details of the plan do not appear in any textbook, and
this is a deliberate omission. "Knowledge of how the land was divided
could arouse questions regarding the reason why the Arabs rejected the
plan and make it possible to question the simplistic version: We
accepted the partition plan, they didn't."
However, his study shows that a larger percentage of the Jewish
population in Israel believes that in 1948, the refugees were expelled
(47.2 percent of respondents), than those who still retain the old
Zionist version (40.8 percent), according to which the refugees left
on their own initiative. On this point, not only do almost all the
history books provide up-to-date information, but some local school
textbooks do as well. Even on the television program
"Tekuma" ("Rebirth," a 1998 documentary series about Israel's first 50
years), the expulsion of the Arabs was mentioned.
Nets-Zehngut also finds a degree of self-criticism in the answers
relating to the question of overall responsibility for the conflict.
Of those surveyed, 46 percent think that the responsibility is more or
less evenly divided between Jews and Arabs, 4.3 percent think that the
Jews are mainly to blame, and 43 percent think that the Arabs and the
Palestinians are mainly to blame for the outbreak and continuation of
the conflict. It turns out, therefore, that when the country's
education system and media are willing to deal with distorted
narratives, even a collective memory that has been etched into
people's minds for years can be changed.
Bar-Tal says he takes no comfort in the knowledge that Palestinian
collective memory suffers from similar ills, and that it is also in
need of a profound change - a change that would help future
generations on both sides to regard one another in a more balanced,
and mainly a more humane manner. This process took many decades for
the French and the Germans, and for the Protestants and the Catholics
in Northern Ireland. When will it finally begin here, too?
link

giovedì 22 gennaio 2009

programma dei compagni israeliani di Hadash e intervista al segretario

il testo è preso dall'elaborazione in inglese su questo sito dell'originale ebraico che sta qui, per cui l'assemblaggio non è identico all'originale

POLITICA ESTERA
Three decades ago, Hadash coined the slogan: “Two states for two peoples.” Hadash’s plan for establishing peace in the region is based on the evacuation of all the territories occupied in 1967, the dismantling of the settlements, the establishment of an independent Palestinian state alongside the State of Israel, and a just solution to the problem of the Palestinian refugees in accordance with the UN resolutions. A comprehensive, sustainable, just peace agreement includes establishing peace with all the neighboring states, based on the borders of June 4th, 1967, which includes returning the Golan Heights to Syria. Jerusalem will be the capital of two states: Israel and Palestine. Israel will withdraw from East Jerusalem, which will become the capital of Palestine. Over the years, Israel has become an American satellite state in the Middle East, which actively promotes American interests around the world. Hadash supports an independent and sovereign Israel that is economically, politically and militarily independent of America. Other features of the plan include: cutting the military budget in half by canceling all existing war plans and by evacuating the occupied territories in the framework of a just and stable peace agreement. Hadash opposes terrorism in all its forms, including state terrorism as practiced by Israel. Hadash opposes terrorism on the part of both groups and individuals, and supports democratic and political struggles of the masses. Hadash advocates prohibiting the development, the testing and the use of weapons of mass destruction in all forms. Hadash supports demilitarizing the Middle East (including Israel and Iran) and ridding the region of all weapons of mass destruction: nuclear, chemical and biological.

il programma è stato completato prima della guerra, ma Hadash si è espressa in merito organizzando manifestazioni contro l'attacco a Gaza

POLITICA SOCIALE
Hadash opposes the capitalist and neoliberal policies adopted by the Israeli governments during the past several decades with the support of the large political parties: Kadima, Likud and Labor. Hadash advocates strengthening the welfare state by enlarging the scope of the social rights of the State’s Jewish and Arab citizens − the right to work, the right to housing, the right to unionize − and by setting new priorities based on a just distribution of national income. Hadash also calls for a cessation of the privatization of social services. Hadash supports lowering the taxes levied on workers and increasing those levied on employers − particularly banks, financial concerns and large-scale employers; imposing a real tax on stock market profits; and annulling all privatizations without compensation. Hadash also supports repealing the reductions made in recent years to National Insurance benefits: unemployment, old age and child allowances.
Hadash anticipates that the global capitalist crisis will have a massive impact on the Israeli economy and has prepared a detailed plan calling for workers, young adults, women and pensioners to promote the immediate measures necessary to protect Israeli society from the consequences of the deepening economic crisis. The major features of the plan are: guaranteeing employment and restoring unemployment benefits to their pre-2001 levels; thoroughly overhauling the operating methods employed by the new pension funds and basing the pensions on the principle of a guaranteed rate of the salary and on earmarked government bonds; selling and renting government-built residential units and state land at low prices as a means of lowering housing costs; raising the corporate tax to 40% and employer contributions to National Insurance to 10% of employee wages. Other features of the plan include: cutting the military budget in half by canceling all existing war plans and by evacuating the occupied territories in the framework of a just and stable peace agreement; accelerating the development of renewable energy sources and the desalinization of sea water; restoring all funds diverted from the education and higher education systems, and implementing the Winograd Commission recommendations regarding the reduction of university tuition. Hadash supports a comprehensive policy of environmental protection and the adoption of principles of environmental justice − which includes taking decisive action against the financial interests that lie behind environmental destruction; special protection for the residents of areas in which industry is concentrated, and promoting equal use of all environmental resources; as well as an end to the privatization of environmental infrastructures that deal with land, transportation, water and the provision of energy.

Dalle altre risposte contenute nel sito olandese si deduce che a livello di mecccanismi politici Hadash è contro il premierato forte e contro il maggioritario, mentre è a favore della più completa libertà di parola (anche per gli antisionisti) e del potere dell'Alta Corte di Giustizia e della Corte Suprema di bloccare qualsiasi legge emanata dalla Knesset.

POLITICA E RELIGIONE
Hadash strives to effect the separation of religion and state, and of religion and politics. Hadash also advocates the ratification of a democratic constitution to safeguard basic human, civil and social rights, the secular character of the state and the equality of its citizens.

Hadash è anche a favore dei matrimoni civili (in Israele non esistono), della possibilità per le imprese di lavorare il sabato, dei tagli al finanziamento pubblico a sinagoghe e yeshivot (le scuole per rabbini).

Infine, l'intervista al compagno
Ayman Auda: qui

lunedì 12 gennaio 2009

la bancarotta della democrazia israeliana è completa: fuorilegge i partiti arabi

ora Israele è uno stato ufficialmente razzista, senza se e senza ma:
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1054867.html
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3654866,00.html
il sogno di purezza etnica dei fascisti ebrei di Jabotinski si è compiuto: lo stato di Israele per soli ebrei e gli arabi raus, dietro il Muro di Ferro.
Ma era ampiamente prevedibile e previsto. Vedere per credere:
link

Il fardello dell'uomo israeliano

Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (...). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa.

Barbara Spinelli

domenica 11 gennaio 2009

IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI

Marco Travaglio ha appena scritto un commento su Gaza, diramato dalla sua casa editrice Chiarelettere, che inizia così: “Israele non sta attaccando i civili palestinesi. Israele sta combattendo un’organizzazione terroristica come Hamas che, essa sì, attacca civili israeliani”.

Bene.

Il compianto Edward Said, palestinese e docente di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York, scrisse anni fa un saggio intitolato “The Treason of the Intellectuals” (il tradimento degli intellettuali). Si riferiva alla vergognosa ritirata delle migliori menti progressiste d’America di fronte al tabù Israele. Ovvero come costoro si tramutassero nelle proverbiali tre scimmiette - che non vedono, non sentono, non parlano - al cospetto dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra che il Sionismo e Israele Stato avevano commesso e ancora commettono in Palestina, contro un popolo fra i più straziati dell’era contemporanea.

E di tradimento si tratta, senza ombra di dubbio, e cioè tradimento della propria coscienza, delle proprie facoltà intellettive, e del proprio mestiere. Gli intellettuali infatti hanno a disposizione, al contrario delle persone comuni, ogni mezzo per sapere, per approfondire. Ma nel caso dei 60 anni di conflitto israelo-palestinese, con la mole schiacciate e autorevole di documenti, di prove e di testimonianze che inchiodano lo Stato ebraico, non sapere e non pronunciarsi può essere solo disonestà e vigliaccheria. Poiché in quella tragedia la sproporzione fra i rispettivi torti è così colossale che non riconoscere nel Sionismo e in Israele un “torto marcio”, una colpa grottescamente e atrocemente superiore a qualsiasi cosa la parte araba abbia mai fatto o stia oggi facendo, è ignobile. E’ un tradimento della più elementare pietas, del cuore stesso dei Diritti dell’Uomo e della legalità moderna. E’ complicità, sì, com-pli-ci-tà nei crimini ebraici in Palestina. Leggete più sotto.

I traditori nostrani abbondano, particolarmente nelle fila dell’ala ‘progressista’. Marco Travaglio guida oggi il drappello, che vede Furio Colombo, Gad Lerner, Umberto Eco, Adriano Sofri, Gustavo Zagrebelsky, Walter Veltroni, Davide Bidussa et al., affiancati dell’instancabile lavoro di falsificazione della cronaca di tutti i corrispondenti a Tel Aviv delle maggiori testate italiane. E ci si chiede: perché lo fanno? Personalmente non mi interessa la risposta, e non voglio neppure addentrarmi in ipotesi contorte del tipo ‘il potere della lobby ebraica’, la carriera, o simili.

Ciò che conta è il danno che costoro causano, che è, si badi bene, superiore a quello delle armi, delle torture, delle pulizie etniche, del terrorismo. Molto superiore.

Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità.

L’evidenza della Storia di cui parlo è in primo luogo: che il progetto sionista di una ‘casa nazionale’ ebraica in Palestina nacque alla fine del XIX secolo con la precisa intenzione di cancellare dalla ‘Grande Israele’ biblica la presenza araba, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo, dall’inganno alla strage, dalla spoliazione violenta alla guerra diretta, fino al terrorismo senza freni. I palestinesi erano condannati a priori nel progetto sionista, e lo furono 40 anni prima dell’Olocausto. Quel progetto è oggi il medesimo, i metodi sono ancor più sadici e rivoltanti, e Israele tenterà di non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno nella sua opera di Pulizia Etnica della Palestina. Questo accadde, sta accadendo e accadrà. Questo va detto, illustrato con la sua mole schiacciante di prove autorevoli, va gridato con urgenza, affinché il pubblico apra finalmente gli occhi e possa agire per fermare la barbarie.

In secondo luogo: che la violenza araba-palestinese, per quanto assassina e ingiustificabile (ma non incomprensibile), è una reazione, REAZIONE, disperata e convulsa, a oltre un secolo di progetto sionista come sopra descritto, in particolare a 60 anni di orrori inflitti dallo Stato d’Israele ai civili palestinesi, atrocità talmente scioccanti dall’aver costretto la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani a chiamare per ben tre volte le condotte di Israele “un insulto all’Umanità” (1977, 1985, 2000). La differenza è cruciale: REAGIRE con violenza a violenze immensamente superiori e durate decenni, non è AGIRE violenza. E’ immorale oltre ogni immaginazione invertire i ruoli di vittima e carnefice nel conflitto israelo-palestinese, ed è quello che sempre accade. E’ immorale condannare il “terrorismo alla spicciolata” di Hamas e ignorare del tutto il Grande terrorismo israeliano.

Le prove. Non posso ricopiare qui migliaia di documenti, citazioni, libri, atti ufficiali e governativi, rapporti di intelligence americana e inglese, dell’ONU, delle maggiori organizzazioni per i Diritti Umani del mondo, di intellettuali e politici e testimoni ebrei, e tanto altro, che dimostrano oltre ogni dubbio quanto da me scritto. Quelle prove sono però facilmente consultabili poiché raccolte per voi e rigorosamente referenziate in libri come “La Pulizia Etnica della Palestina”, di Ilan Pappe, Fazi ed., o “Pity The Nation”, di Robert Fisk, Oxford University Press, e “Perché ci Odiano”, Paolo Barnard, Rizzoli BUR, fra i tantissimi. O consultabili nei siti http://www.btselem.org/index.asp, http://www.jewishvoiceforpeace.org, http://zope.gush-shalom.org/index_en.html, http://www.kibush.co.il, http://rhr.israel.net, http://otherisrael.home.igc.org. O ancora leggendo gli archivi di Amnesty International o Human Rights Watch, o ne “La Questione Palestinese” della libreria delle Nazioni Unite a New York.

E torno al “tradimento degli intellettuali” nostrani. Vi sono aspetti di quel fenomeno che sono fin disperanti. Il primo è l’ignoranza in materia di conflitto israelo-palestinese di alcuni di quei personaggi, Marco Travaglio per primo; un’ignoranza non scusabile, per le ragioni dette sopra, ma anche ‘sospetta’ in diversi casi.

Un secondo aspetto è l’ipocrisia: l’evidenza di cui sopra è soverchiante nel descrivere Israele come uno Stato innanzi tutto razzista, poi criminale di guerra, poi terrorista, poi Canaglia, poi persino neonazista nelle sue condotte come potere occupante. Ricordo il 17 novembre 1948, quando Aharon Cizling, allora ministro dell’agricoltura della neonata Israele, sorta sui massacri dei palestinesi innocenti, disse: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti, e tutta la mia anima ne è scossa”. Ricordo Albert Einstein, che sul New York Times del dicembre 1948 definì l’emergere delle forze di Menachem Begin (futuro premier d’Israele) in Palestina come “un partito fascista per il quale il terrorismo e la menzogna sono gli strumenti”. Ricordo Ephrahim Katzir, futuro presidente di Israele, che nel 1948 mise a punto un veleno chimico per accecare i palestinesi, e ne raccomandò l’uso nel giugno di quell’anno. Ricordo Ariel Sharon, che sarà premier, e che nel 1953 fu condannato per terrorismo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 101, dopo che ebbe rinchiuso intere famiglie palestinesi nelle loro abitazioni facendole esplodere. Ricordo l’ambasciatore israeliano all’ONU, Abba Eban, che nel 1981 disse a Menachem Begin: “Il quadro che emerge è di un Israele che selvaggiamente infligge ogni possibile orrore di morte e di angoscia alle popolazioni civili, in una atmosfera che ci ricorda regimi che né io né il signor Begin oseremmo citare per nome”. Ricordo la risoluzione ONU A/RES/37/123, che nel dicembre del 1982 definì il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila sotto la “personale responsabilità di Ariel Sharon” un “atto di genocidio”. Ricordo le parole dello Special Rapporteur dell’ONU per i Diritti Umani, il sudafricano John Dugard, che nel febbraio del 2007 scrisse che l’occupazione israeliana era Apartheid razzista sui palestinesi, e che Israele doveva essere processata dalla Corte di Giustizia dell’Aja. Ricordo le parole dell'intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein, i cui genitori furono vittime dell’Olocausto: “Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.” Ricordo che esistono prove soverchianti che Israele usa bambini come scudi umani; che lascia morire gli ammalati ai posti di blocco; che manda i soldati a distruggere i macchinari medici nei derelitti ospedali palestinesi; che viola dal 1967 tutte le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga; che ammazza i sospettati senza processo e con loro centinai di innocenti; che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili esattamente come Saddam Hussein fece con le sue minoranze shiite; che massacra 19.000 o 1.000 civili a piacimento in Libano (1982, 2006) e poi reclama lo status di vittima del ‘terrorismo’. Ricordo che il Piano di Spartizione della Palestina del 1947 fu rigettato da Ben Gurion prima ancora che l'ONU lo adottasse, e che esso privava i palestinesi di ogni risorsa importante (dai Diari di Ben Gurion). Ricordo che la guerra arabo-israeliana del 1948 fu una farsa dove mai l’esercito ebraico fu in pericolo di sconfitta, tanto è vero che Ben Gurion diresse in quei mesi i suoi soldati migliori alla pulizia etnica dei palestinesi (sempre dai Diari di Ben Gurion); che la guerra dei Sei Giorni nel 1967 fu un’altra menzogna, dove ancora Israele sapeva in aticipo di vincere facilmente “in 7 giorni”, come disse il capo del Mossad Meir Amit a McNamara a Washington prima delle ostilità, e mentre l’egiziano Nasser tentava disperatamente di mediare una pace (dagli archivi desecretati della Johnson Library, USA); che gli incontri di Camp David nel 2000 furono un inganno per distruggere Arafat, come ho dimostrato in “Perché ci Odiano” intervistando i mediatori di Clinton; che i governi di Israele hanno redatto 4 piani in sei anni per la distruzione dell'Autorità Palestinese sancita dagli accordi di Oslo mentre fingevano di volere la pace (nomi: Fields of Thorns, Dagan, The Destruction of the PA, ed Eitam); che la tregua con Hamas che ha preceduto l’aggressione a Gaza fu rotta da Israele per prima il 4 novembre del 2008 (The Guardian, 5/11/08 – Ha’aretz, 30/12/08), con l’assassino di 6 palestinesi. E queste sono solo briciole della mole di menzogne che ci hanno raccontato da sempre sulla 'epopea' sionista.

Ricordo infine Ben Gurion, il padre di Israele, che lasciò scritto: “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba”. E ancora: “C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti”. Quell'uomo pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’OLP, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele.

Ricordo ai nostri ‘intellettuali’ di andarle a leggere queste cose, che sono in libreria accessibili a tutti, prima di emettere sentenze.

E l’ipocrisia sta nel fatto che questi negazionisti di tali orrori storici possono scrivere le enormità che scrivono sulla tragedia di Gaza, sulla Pulizia Etnica dei palestinesi, e possono dichiararsi filo-israeliani “appassionati” (Travaglio) senza essere ricoperti di vergogna dal mondo della cultura, dai giornalisti e dai politici come lo sarebbe chiunque negasse in pubblico l’orrore patito per decenni dalle vittime dell’Apartheid sudafricana, o i massacri di pulizia etnica di Srebrenica e in tutta la ex Jugoslavia.

Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari 'intellettuali'.

Paolo Barnard
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Fulvio Grimaldi: questione nazionale e internazionalismo: oggetti smarriti

....Qui, della famigerata ed esorcizzata lotta di classe si tratta. E non nei termini dell’atrofizzazione dogmatica di certi miei critici. Dico cose scontate: come ci sono negli Stati della borghesia capitalista classi da spremere e, se del caso, sopprimere, così ci sono, con le stesse identiche connotazioni sociali, ma in più anche nazionali, popoli proletari che vorrebbero acquisire i diritti dell’uguaglianza sociale e sanno che la loro conquista dipende in primis dal diritto dell’uguaglianza degli Stati. Dalla sovranità. Quella sovranità da noi ceduta nel secolo scorso e che mi echeggiava nelle orecchie come esigenza primaria, in ogni paese latinamericano percorso. Non mi si venga qui a barbugliare di proletari ebrei e proletari arabi che dovrebbero unirsi contro i padroni, sennò non se ne fa niente. Si impari dai nordirlandesi che, con la borghesia anglo-unionista che gli aveva scatenato addosso i proletari fascisti protestanti lobotomizzati, sapevano come la rivoluzione passasse per la sovranità nazionale del loro paese riunificato. Qui coloro che blaterano per il superamento degli Stati nazione sono graditissimi ciambellani ai party degli Stati più forti e delle élites che ne sono foraggiate e protette.....
Intanto, stiamo in guardia: tutto quello che questi rigurgiti di barbarie vanno facendo in giro per il mondo, sono prove di laboratorio per arrivare preparati all’immancabile scontro finale tra capitale e anticapitalismo generato dalla crisi. Potete immaginare il terrore dei padroni davanti a quelle masse senza più niente da perdere che si muoveranno, poniamo, per riprendersi le acque sequestrate dai ladri di beni comuni, per riaprire i forni limitati alla produzione di brioches per ricchi, o rioccupare col grano non inquinato da geni alieni i campi sottratti al nutrimento umano e destinati a quello delle auto ammazzamondo, o sostituire nelle scuole l’intelligenza e la conoscenza alla protervia e al rincretinimento aziendalista, o prendersi le città, le produzioni, il mare, l’aria? Ve lo immaginate?...
Risuona, come il lamento della tramontana tra gli alberi, l’affannata domanda: cosa possiamo fare. Laggiù per ora niente. Solo capire e capire vuol dire rispettare i popoli e le loro scelte, comprendere i progetti, il quadro generale, i collegamenti, insomma la geopolitica. A fare cose concrete, visto che Israele non ammette testimoni, ci pensa per noi Vittorio Arrigoni che ieri ha rifiutato il suggerimento della nostra diplomazia e degli israeliani di far parte dell’ultimo gruppo di stranieri in uscita da Gaza. Leggetelo sul “manifesto”, nobilita quella testata.....
Nessuno mi toglie di testa che ai nazifascisti si reagisce con tutto quello che puoi rimediare e che, nella situazione attuale, il movimento antagonista deve diffondere coscienza di tre libertà da rivendicare.
La libertà nazionale, che è quella che fa rizzare i peli di tanti compagni che darebbero l’anima per la libertà nazionale, cioè la sovranità, dei palestinesi, boliviani, cubani, curdi, baschi, irlandesi, magari sudtirolesi. Noi non ne abbiamo che l’impalcatura costituzionale, che, del resto, va perdendo pezzi a ogni passaggio di Gellisconi. Dal 1945 la nostra sovranità nazionale ha le manette di una subordinazione coloniale che vaioleggia tutto il territorio, alimenta lo stragismo terrorista di Stato, ci fa base e obiettivo di guerre, eventualmente nucleari. Il paese è totalmente mafizzato da una potenza predatrice interna che, in base agli accordi tra padrini e Washington del 1945, fa capo alla criminalità organizzata politico-economica delle potenze occidentali. Non c’è mossa dei nostri apparati di “sicurezza” che non risponda a dettami di Washington o Tel Aviv. L’ìntero Settentrione del paese è malgovernato e pervertito culturalmente e l’unità nazionale è minata da una forza politica che risponde agli interessi espansionistici di uno Stato del Nord.
La libertà legale, la legge uguale per tutti, la Costituzione e gli statuti rispettati. Qui si dà da fare, strumentalmente o meno non importa, quel Di Pietro alle cui manifestazioni certi compagni non andrebbero neanche se glielo chiedesse Lenin. Dimenticano questi compagni che la legalità sarà pure borghese, ma gliela abbiamo strappata noi. Pensate che esistesse la norma universale che “la legge è uguale per tutti” prima della rivoluzione francese, prima dell’indipendenza nazionale, e che lo statuto dei lavoratori ci sia stato benevolmente elargito da Agnelli e Mediobanca, che, andando indietro, non ci sarebbero ancora la schiavitù (che intanto ritorna) o le 17 ore di lavoro (che pure stanno tornando) se non fosse stato per classi in rivolta e per i loro martiri? E allora arricciamo il naso su chi si batte contro il Lodo Alfano, la truffa lavoricida dell’Alitalia, le intemerate contro quei pochi giudici che ancora osano perseguire i potenti? Diceva Niemoller più o meno così: dopo la legge che gli permette di far fuori gli zingari, di lagerizzare gli ebrei, di uccidere i comunisti, e noi siamo stati zitti, verrà promulgata anche quella contro di noi. E non ci sarà più nessuno a obiettare.
La libertà sociale è quella sulla quale ci troviamo d’accordo tutti. La fame è fame e, come dice il Che, l’alienazione è alienazione, il precariato è morte civile e sociale, l’ambiente è specie a rischio, la scuola ti mastica e di caga e per lo sciopero c’è la precettazione. Solo che a infilare la testa tutt’intera nella battaglia per questa libertà, si rischia di finire come lo struzzo: che ti si fanno da dietro. Negli ultimi tempi il discorso internazionale era svaporato nelle assise dei compagni. Era come se si fosse tagliato il filo che lega tutto. Iniziative contro la guerra? L’Afghanistan e i nostri ascari Nato? L’Iraq dalle ultime mani che spuntano dal naufragio? Tutto svaporato. Vicenza e la base d’assalto e di controllo interno, le altri basi Usa e Nato, i nostri porti requisiti dalle flotte imperiali, le atomiche a casa nostra, lo scorazzare di servizi segreti malintenzionati e terroristi, l’innesto della nostra classe politica nella malapianta USraeliana, i nostri ascari subimperialisti mandati a caccia di teste, prima serbe, poi musulmane, il nostro giornalismo alimentato, come quell’orsacchiotto semovente col tamburo, dalle pile caricate nei monopoli dell’informazione imperialista…
Questo millennio è iniziato con un tasso di sadismo e criminalità delle élites regnanti giudaicocristiane che non ha l’uguale negli albori di altri millenni. Se passa Israele e il suo progetto di pulizia etnica dal mare al Giordano e molto oltre, se passano gli Stati Uniti, se passa l’UE, passa il fascismo, probabilmente la fine del mondo verrà anticipata di qualche evo. Per averli conosciuti, credo che quello che i palestinesi ci chiedono è di riprendere a pretendere: “Via le nostre spedizioni militari all’estero, via le basi straniere dal nostro suolo, fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia.” Non è più il tempo dei volontari internazionalisti accanto ai fedayin. Quelli erano tempi! Li ho frequentati e come li rimpiango! Ma anche gli obiettivi del nostro tempo non sono male. Basta vederli. Tutto questo non ci esime di urlare per Hamas e per chiunque difenda la Palestina, ebrei non nazisionisti in testa, fino a irrompere nei cervelli della gente, a ricattare una classe politica modellata nella melma, a far viaggiare fino all’ultimo orizzonte l’immagine d’ Israele nazificato. Rispetto a quelle negli altri paesi imperialisti, le manifestazioni in Italia sono state patetiche. Downing Street è stata sommersa da sputi e scarpe. Un tempo eravamo i primi. La caduta dell’internazionalismo si paga.
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