venerdì 28 novembre 2008

i coloni che vorrebbero lasciare la Cisgiordania

Rimonim, Cisgiordania - Circondati dall’ostilità, vivendo su una terra che la maggior parte del mondo vuole restituire ai palestinesi affinché vi creino un loro stato, si incontrano silenziosamente in insediamenti ebraici come questo, pianificando il futuro. Ma questi coloni assediati della Cisgiordania, ampiamente considerati come un ostacolo alla pace, sorprendentemente vogliono solo una cosa: andar via.
Mentre la stragrande maggioranza dei coloni dichiara di non voler assolutamente abbandonare il cuore della storica patria ebraica - queste antiche colline di una desolata bellezza i cui nomi biblici sono Giudea e Samaria - migliaia di altri coloni affermano di voler tornare entro i confini di Israele antecedenti al 1967.
Dicono che il progetto di colonizzazione della Cisgiordania - almeno nella parte che si trova al di là della barriera di separazione che Israele sta costruendo - è destinato al fallimento, e che le loro vite sono in pericolo. Molti dicono anche qualcos’altro: l’occupazione israeliana delle terre rivendicate dai palestinesi è sbagliata, e loro non vogliono avere alcun ruolo in essa. Ma le loro case non hanno alcun valore, e dunque si trovano bloccati. Vogliono aiuto.
”Sono venuto qui 25 anni fa, a vivere in campagna ed a crescere la mia famiglia”, ha detto David Avidan mentre sedeva nel soggiorno di un vicino, una sera di pochi giorni fa, per discutere una strategia per andarsene. “Volevamo colonizzare di nuovo tutta la terra di Israele”, ha aggiunto. “Ma ora, quando vedo come i nostri soldati trattano i palestinesi ai checkpoint, mi vergogno. Voglio che ce ne andiamo di qui. Voglio due Stati per due popoli. Ma non posso ottenere denaro in cambio della mia casa, e non posso andarmene”.
Ci sono 280.000 coloni in Cisgiordania (oltre ai più di 200.000 ebrei israeliani che vivono a Gerusalemme Est, anch’essa presa nel 1967), e la stragrande maggioranza è fermamente determinata a rimanere, e ad opporsi ad uno Stato palestinese in queste terre. Ma 80.000 di essi vivono al di là della barriera, e i sondaggi indicano che molti vorrebbero andarsene. Se lo facessero, altri potrebbero seguirli volontariamente.
“Abbiamo fatto un sondaggio tre anni fa, e di nuovo uno lo scorso anno, ed i risultati sono stati gli stessi”, ha detto Avshalom Vilan, un parlamentare del partito di sinistra Meretz. “La metà dei coloni al di là della barriera è motivata ideologicamente, e non vuole andarsene. Ma circa il 40% di essi è pronto ad andar via ad un prezzo ragionevole”.
Vilan è uno dei leader di un movimento chiamato ‘Bayit Ehad’, o ‘One Home’, che vuole una legge che stanzi 6 miliardi di dollari per acquistare le case di 20.000 famiglie, in modo da permettere loro di ricominciare da capo all’interno dei confini di Israele. Gran parte della dirigenza di Kadima - il partito centrista al governo – insieme al Partito Laburista, più orientato a sinistra, sostiene la legge in linea di principio, e il governo ha ascoltato diverse presentazioni di questa legge.
Ma la leadership al potere ha smesso bruscamente di appoggiarne l’approvazione, per paura di creare una spaccatura esplosiva nella società israeliana. Vi è anche la preoccupazione che un passo del genere equivalga a dar via una risorsa senza ottenere nulla in cambio dai palestinesi - un atto unilaterale simile al ritiro da Gaza di tre anni fa, che ha rafforzato il gruppo militante islamico di Hamas, e che è considerato in Israele come un fallimento.
I sostenitori della legge dicono che quella del ritiro da Gaza è una falsa analogia, perché un ritiro dei coloni dalla Cisgiordania rafforzerebbe l’Autorità Palestinese (ANP) sotto la guida del Presidente Mahmoud Abbas. L’ANP sta cercando di convincere l’opinione pubblica palestinese che due Stati sono possibili.
I sostenitori della legge aggiungono che il punto principale è quello di avviare il trasferimento rapidamente, al fine di incoraggiare altri a fare altrettanto, dando inizio ad un processo ordinato per compiere un’impresa che è politicamente ed emotivamente complessa.
Non succederà nulla prima delle elezioni di febbraio, ma i sostenitori della legge sperano che, se il ministro degli Esteri Tzipi Livni, di Kadima, otterrà un numero di voti abbastanza consistente per formare il prossimo governo, deciderà di andare avanti con rapidità. La Livni ha dichiarato che non appena vi saranno le condizioni per una soluzione a due Stati, sarà disposta a prendere maggiormente in considerazione l’idea di far passare la legge.
I coloni che hanno preso posizione a favore di un tale passo dicono che la vita è ormai difficile.
Benny Raz, 55 anni, che ha vissuto con la sua famiglia nell’insediamento di Karnei Shomron a partire dalla metà degli anni ‘90, negli ultimi anni ha cominciato a chiedere una via d’uscita, invitando il governo ad acquistare la sua casa e quelle dei coloni suoi compagni.
“I miei vicini di casa mi guardavano come se fossi un traditore, o come se venissi da un altro pianeta”, ha raccontato. Ha detto di essere stato licenziato dal suo posto di lavoro come responsabile dei conducenti di autobus dell’insediamento, e che il chiosco di panini di sua moglie è stato boicottato e fatto fallire.
”Ho ricevuto telefonate minacciose in cui mi dicevano che mi avrebbero ammazzato”, ha detto. “Oggi, porto con me una pistola, perché ho paura degli ebrei, non degli arabi”.
Herzl Ben Ari, sindaco di Karnei Shomron, ha detto che il signor Raz è stato licenziato per incompetenza, e che il chiosco di panini ha avuto problemi igienici, due questioni estranee alla sua attività politica. Dani Dayan, presidente del Consiglio dei coloni, ha detto che, se gli immobili di alcune comunità hanno perso valore, la maggior parte delle case negli insediamenti in Cisgiordania ha ancora prezzi elevati.
”Questa legge è psicologica”, ha detto in riferimento alla proposta di legge. “Vogliono far pressione su di noi e sull’opinione pubblica israeliana per dare l’illusione che il nostro destino sia già segnato. A loro piace dire che tutti sanno che, alla fine, queste comunità non esisteranno più. Io dico il contrario. Sempre più persone, qui e all’estero, stanno iniziando a capire che non ci sarà nessuno Stato palestinese su queste terre”.
Alcune case, abbandonate dai coloni che non erano disposti a rimanere, sono state occupate da giovani famiglie religiose che pagano un affitto minimo, e che sono state indirizzate in questi luoghi dalla leadership dei coloni. Vilan, il parlamentare di sinistra, ha detto che, con la sua legge, traslocare nelle case degli insediamenti acquistate dal governo sarebbe un reato punibile con una pena fino a cinque anni di reclusione.
‘One Home’ ha tenuto decine di incontri in giro per gli insediamenti in Cisgiordania, invitando coloro che vogliono andarsene a diventare attivi nel movimento.
Nel corso di un incontro qui a Rimonim, molte persone hanno detto di aver paura che ciò che è accaduto a Benny Raz possa accadere anche a loro.
Una fra coloro che Benny Raz ha contribuito a convincere, durante una precedente riunione, è Monika Yzchaki dell’insediamento di Mevo Dotan che, come l’insediamento del signor Raz, è nella metà settentrionale della Cisgiordania, e si trova dall’altra parte della barriera. Vi si è trasferita 16 anni fa con suo marito e i bambini piccoli.
”Siamo venuti qui per avere una casa che potessimo mantenere, in una buona situazione”, ha detto per telefono. “Molti non capiscono che ci sono molti di noi che non sono né estremisti né pazzi. Ora devo mostrare il passaporto alla barriera per poter tornare a casa. Ora vivo in Palestina. Era normale che io pensassi che questo fosse il mio paese, e che loro pensassero che fosse il loro. Oggi è evidente che questo è il loro paese.” Poi ha aggiunto: ”Sono in grado di elencare 40 famiglie che vogliono andarsene, ma hanno paura di dirlo ad alta voce.”
Interpellata su quale fosse il suo punto di vista riguardo ad uno Stato palestinese, ha detto: “Credo che dovrebbe esserci una soluzione a due Stati. Non si può vivere con persone che non hanno l’indipendenza. Devono imparare la loro lingua, insegnare ai loro figli il loro patrimonio culturale. Ma questo è il loro problema. Il mio problema è che il mio governo mi ha abbandonato”
Ethan Bronner è direttore degli uffici di Gerusalemme del New York Times; in precedenza ha lavorato nell’unità investigativa del giornale, occupandosi degli attacchi dell’11 settembre; tra il 1985 ed il 1997 aveva lavorato per il Boston Globe, del quale era stato a lungo corrispondente per il Medio Oriente, da Gerusalemme
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La nuova propaganda del Pentagono in Iraq

Negli ultimi mesi, il segretario americano alla Difesa, Robert Gates, ha ricevuto molti apprezzamenti per aver ridimensionato i toni della retorica trionfalistica che aveva contrassegnato le prime fasi della cosiddetta ‘guerra al terrore’. L’enfasi da lui posta sulla necessità di “un senso di umiltà, ed un riconoscimento dei limiti” è una dolce musica per coloro che mettono in discussione la necessità di fare automaticamente ricorso ad un uso sproporzionato della forza per difendere gli interessi nazionali degli Stati Uniti.
Ma vi è un settore in cui Gates non è altrettanto modesto o consapevole dei limiti quanto egli vorrebbe che fossero i militari. Nelle sue frequenti dichiarazioni in cui afferma che l’hard power non può ottenere tutto, Gates sottolinea che ciò di cui c’è bisogno è una dose maggiore di soft power (l’‘hard power’ di un paese designa la capacità che esso ha di esercitare la propria influenza attraverso mezzi eminentemente militari, o mezzi economici coercitivi; il ‘soft power’ designa invece la capacità di esercitare la propria influenza attraverso la diplomazia, la cultura e la storia (N.d.T.) ). Tuttavia, quello che emerge è che egli intende dosi massicce di soft power interpretate, ‘confezionate’, e distribuite dal Pentagono e dalle sue ditte appaltatrici.
E’ vero che, in un discorso tenuto nel novembre dell’anno passato, Gates disse che un altro ente governativo – il Dipartimento di Stato – avrebbe dovuto ottenere più fondi per le sue attività di soft power, che includono programmi di ‘public diplomacy’, come i suoi trascurati scambi culturali ed educativi
Tuttavia, poco notata tra le molto acclamate dichiarazioni di Gates vi è la seguente affermazione: “Non fraintendetemi, chiederò ulteriori fondi per la difesa l’anno prossimo”. Parte del denaro che Gates intende spendere, come ha recentemente riferito il Washington Post, sarà dedicata ad uno sforzo triennale – con una spesa di 300 milioni di dollari – per “coinvolgere e motivare” la popolazione dell’Iraq ad appoggiare il suo governo e le politiche USA, attraverso una serie di programmi che vanno dai prodotti mediatici all’intrattenimento (un’ulteriore somma di 15 milioni di dollari all’anno dovrebbe essere spesa per effettuare sondaggi d’opinione tra gli iracheni).
Si tratta di una cifra enorme per gli standard delle politiche di soft power. Il Dipartimento di Stato prevede di spendere appena 5,6 milioni di dollari in ‘public diplomacy’ in Iraq nell’anno fiscale 2008. Il denaro del Dipartimento della Difesa sarà distribuito fra quattro società appaltatrici private, incluso il Lincoln Group il quale, sulla base di accordi con il Pentagono, pagò segretamente alcuni giornali iracheni per stampare articoli scritti dai vertici militari americani ma pubblicati come notizie di prima mano.
Alcune voci critiche si sono levate nei confronti dell’iniziativa di Gates per accattivarsi i cuori e le menti degli iracheni. Jim Webb, senatore democratico della Virginia, il cui background militare e giornalistico lo rende ampiamente qualificato a parlare a proposito dell’uso del soft power da parte del Pentagono, scrisse in una lettera a Gates: “Mentre questo paese si trova di fronte ad una crisi economica così grave, e mentre il governo iracheno registra almeno 79 miliardi di dollari di surplus derivanti dagli introiti petroliferi, secondo me ha ben poco senso che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti spenda centinaia di milioni di dollari per fare propaganda nei confronti del popolo iracheno”.
Gli specialisti di ‘public diplomacy’ sono anch’essi rimasti sconcertati dalla missione di indottrinamento di Gates. Un noto esperto mi ha scritto tramite e-mail: “La comunicazione che è vista come propaganda non attrae, e di conseguenza non produce soft power”. Le voci critiche sottolineano che i finanziamenti del Dipartimento della Difesa non sono trasparenti, e ciò potrebbe tradursi nella perdita di credibilità dei suoi programmi nel momento in cui coloro a cui tali programmi sono indirizzati scopriranno da dove viene realmente il denaro. Una cosa del genere si è indubbiamente verificata nel corso della Guerra Fredda, quando emerse che la CIA era il segreto finanziatore di riviste intellettuali che erano in precedenza considerate indipendenti. L’ambasciatore iraniano in Iraq, Kazemi Qomi, ha già espresso le proprie rimostranze: “Quattro importanti compagnie nel settore dei media stanno dando il loro contributo al piano del Pentagono di incitare l’opinione pubblica irachena contro l’Iran e di guastare i rapporti fra Teheran e Baghdad”. Una simile “propaganda anti-iraniana”, ha affermato l’agenzia di stampa iraniana FARS, è “inutile”.
La costosa iniziativa di soft power del Pentagono non è limitata ad un pubblico straniero, ma include gli stessi Stati Uniti. Essa stabilisce la necessità di “comunicare in maniera efficace con le nostre audience strategiche (vale a dire con il pubblico iracheno, con quello arabo, con quello internazionale, e con quello degli Stati Uniti) per assicurare una diffusa approvazione dei temi e dei messaggi [del governo statunitense e di quello iracheno]”. Secondo Marc Lynch, uno specialista del settore dei media mediorientali, fare del “pubblico americano…un obiettivo chiave da manipolare attraverso la diffusione segreta di messaggi di propaganda dovrebbe essere considerato scandaloso, lesivo della democrazia, ed illegale”.
Scandaloso lo è certamente, ma questa abitudine di rendere la stessa patria americana un obiettivo fa parte del modo di operare del Dipartimento della Difesa, come confermano le rivelazioni del New York Times riguardo all’uso ‘militare’ di commentatori dei media nazionali in qualità di propagandisti del Pentagono (queste attività sono attualmente soggette ad un’indagine della Commissione federale delle comunicazioni). Nulla è peggiore del cattivo uso dell’hard power, come Gates ha giustamente suggerito. Tuttavia egli non sembra disposto ad ammettere che la stessa cosa è vera anche nel caso di ciò che il Pentagono interpreta come soft power.

John Brown ha servito nello ‘US Foreign Service’, il servizio diplomatico statunitense, per oltre vent’anni; attualmente è ‘senior fellow’ presso il Center on Public Diplomacy della University of Southern California

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