sabato 6 dicembre 2008

il punto della situazione nelle colonie ebraiche

Gerusalemme, 5 dic. (Apcom) - E' una sfida ad ampio raggio e sempre piu' violenta quella che stanno lanciando i coloni ebrei sparsi nella Cisgiordania occupata da Israele nel 1967. La "Intifada ebraica" scattata dopo l'evacuazione, da parte della polizia, di uno stabile palestinese occupato dai coloni in violazione di una sentenza dell'Alta Corte di Giustizia, ha confermato che la destra religiosa e ultranazionalista ha nel suo mirino non solo i palestinesi ma lo stesso Stato di Israele, considerato ormai un "nemico" del progetto di redenzione di Eretz Israel, la biblica "Terra di Israele" promessa da Dio al popolo ebraico.
Non era stato cosi' dopo il 1967, quando le forze armate israeliane - in sei giorni di guerra lampo contro gli eserciti di Giordania, Egitto e Siria - catturarono Cisgiordania, Gaza e il settore arabo (Est) di Gerusalemme (oltre alle Alture del Golan e il Sinai) ponendo, di fatto, la quasi totalita' di Eretz Israel sotto il controllo ebraico. Si realizzo' quell'anno il sogno del rabbino capo della Palestina (all'inizio del Novecento) Avraham Kook e di suo figlio Zvi Yehuda, che avevano dato vita e sviluppato la corrente del Sionismo religioso.
In contrasto con la maggioranza dell'ebraismo ortodosso, il rabbino Kook e suo figlio avevano individuato nello Stato di Israele, quantunque laico, la "sacra" funzione di riconquista della totalita' della Terra Promessa, indispensabile per avviare il processo messianico di Redenzione. Il loro pensiero, per anni minoritario nel mondo religioso israeliano, trovo' popolarita' dopo il 1967 fino a dare vita nel 1974 al Gush Emunim ("Blocco dei fedeli"), un movimento sostenuto dal Partito nazional religioso, che si sarebbe impegnato negli anni successivi a "redimere" Eretz Israele, con la creazione di colonie nei territori palestinesi e arabi occupati. A favorire i disegni del Gush Emunim, "avanguardia del volere divino", fu soprattutto il Likud, il partito di destra guidato da Menachem Begin vincitore delle elezioni nel 1977, a danno al Partito laburista che
aveva dominato la scena politica prima e dopo la fondazione di Israele. Grazie al Likud e sempre appoggiato dal Partito nazional religioso, il Gush Emunim ebbe modo di disseminare la Cisgiordania e Gaza, ma anche il Golan e il Sinai, di colonie ebraiche, allo scopo dichiarato di impedire la restituzione dei territori "riconquistati" nel 1967.
La pace di Camp David, firmata da Begin con l'Egitto nel 1977, e il successivo ritiro dal Sinai, mise fine alla luna di miele tra il Gush Emunim e il governo israeliano ma, piu' di tutto, diede vita ad una spaccatura: la maggioranza del movimento dei coloni decise di collaborare con lo Stato mentre la minoranza si frantumo' in varie formazioni sempre piu' estremiste e violente a tal punto da mettere in discussione la legittimita' delle istituzioni ufficiali israeliane e di sollecitare il ritorno alla antica monarchia ebraica.
"Il Gush Emunim ora esiste solo sulla carta, oggi a dettare legge sono i piu' estremisti", ha spiegato ad Apcom Meir Margalit, un ex colono (a Gaza) divenuto qualche anno fa un pacifista e, successivamente, consigliere comunale a Gerusalemme. "Un numero cospicuo di coloni ha
sviluppato un approccio pragmatico e accetta la possibilita' della nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza mentre una minoranza piu' fanatica, valutabile in alcune migliaia di coloni (sui 200mila nei Territori, ndr), intende opporsi con tutte le sue forze alla restituzione delle terre ai palestinesi ed evitare un ritiro dalla Cisgiordania simile a quello realizzato (nel 2005) dalla
Striscia di Gaza".
La sollevazione messa in atto ieri dai coloni piu' radicali, che godono del sostegno di un certo numero di parlamentari della destra estrema e di alcuni partiti minoritari, ha confermato le
preoccupazioni sulla pericolosita' crescente del fanatismo religioso ebraico manifestate a piu' riprese da politici ed intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, vittima qualche mese fa di un attentato compiuto da attivisti legati al movimento dei coloni. L'analista politico Ron Ben Yishai avverte che "il peggio non e' ancora venuto" e che la rivolta violenta scattata a Hebron e' stata solo un "esempio" di cio' che i coloni potrebbero mettere in atto se governo ed esercito non agiranno con determinazione. I coloni, dice Ben Yishai, puntano apertamente a provocare una reazione violenta dei palestinesi, in modo da gettare la Cisgiordania nel caos e impedire la nascita di uno Stato palestinese indipendente.
Non pochi vedono all'orizzonte anche omicidi politici, simili a quello del premier laburista Yitzhak Rabin, colpito a morte 13 anni fa a Tel Aviv da un giovane ebreo aizzato da rabbini di estrema destra che negli accordi di Oslo con i palestinesi avevano visto un tradimento della "redenzione" di Eretz Israel. Anche la possibile vittoria del leader del Likud, Benyamin Netanyahu, alle elezioni del prossimo 10 febbraio, potrebbe non bastare a chi rifiuta categoricamente l'idea di un compromesso territoriale con i palestinesi.

Con Africom giungono in Italia altri 1.000 militari USA

E il Pentagono sbugiarda Franco Frattini. Due giorni fa il ministro degli esteri italiano aveva annunciato la concessione agli Stati Uniti dell’utilizzo delle basi di Napoli e Vicenza per l’installazione di due nuovi comandi per le operazioni nel continente africano (Africom), “senza che ciò comporterà l’aumento su base permanente delle truppe Usa in Italia”. Le forze armate statunitensi fanno invece sapere che l’istituzione dei due quartieri generali è già attiva con l’assegnazione a Napoli e Vicenza di 750 militari, a cui se ne affiancheranno presto degli altri.
Intervistato dal quotidiano delle forze armate Usa “Stars and Stripes”, il colonnello Marcus de Oliveira, portavoce del comando dell’esercito statunitense SETAF (Southern European Task Force) con base a Vicenza, ha dichiarato che il personale di stanza nella città veneta “potrebbe aumentare di circa 50 unità, portando così il numero del personale militare operante a 300”.
A Napoli, invece, la Naval Forces Europe è stata ampliata per includere la componente navale di Africom che ha preso il nome di “NAVEUR NAVAF”. “Con uno staff di circa 500 uomini – scrive Stars and Stripes - questo comando potrebbe crescere entro i prossimi due anni di circa 140 unità”. Le finalità del nuovo quartier generale delle forze navali per l’Africa sono state sintetizzate dall’ammiraglio Mark Fitzgerald, comandante di NAVEUR NAVAF. “Focalizzeremo i nostri interventi in Africa costruendo la cooperazione regionale per la sicurezza nel continente”, ha dichiarato Fitzgerald. “Il modello a cui guardiamo è quello che vede attualmente gli stati della regione del Golfo di Guinea operare congiuntamente contro il traffico di droga, l’immigrazione illegale e il traffico di essere umani. La lotta alla pirateria continuerà ad essere un punto centrale per la Us Navy e per Africom”.
Con l’istituzione di NAVEUR NAVAF a Napoli, l’Africa Partnership Station (APS), la forza multinazionale che la Marina degli Stati Uniti ha promosso con i paesi dell’Africa occidentale e centrale, passa sotto il controllo del comando di Napoli.
Buona parte delle operazioni di rifornimento munizioni, carburante e materiali logistici delle unità impegnate in esercitazioni in ambito APS continueranno però ad essere coordinate dal “Fleet and Industrial Supply Center” (FISC), il centro logistico delle forze navali degli Stati Uniti istituito a Sigonella il 3 marzo 2005.
Nella base siciliana è pure presente uno dei reparti di punta della nuova strategia di penetrazione militare nel continente africano, la “Joint Task Force JTF Aztec Silence”, una forza speciale dotata di aerei P-3c Orion per la conduzione di missioni d’intelligence, sorveglianza terrestre, aerea e navale in Africa settentrionale, occidentale e nel Corno d’Africa.
Oltre al Comando terrestre di Vicenza e a quello navale di Napoli, Africom ha attivato un quartier generale delle forze aeree a Ramstein (AFAFRICA) e un comando delle forze del Corpo dei Marines a Boeblingen (MARFORAF). Sempre in Germania, a Stoccarda, ha sede il quartier generale di Africom, destinato però ad essere trasferito nel Sud Europa. A contendersi Africom la base navale Usa di Rota-Cadice in Spagna e ancora una volta la Naval Station di Napoli-Capodichino.
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varie e avariate

il solito splendido Fulvio Grimaldi
Manifesto della Sinistra radicale europea
Obama il nixoniano
Usa: occupati calano di 533.000 unità a novembre

Oleodotti e nucleare, il grande gioco asiatico
La battaglia di Mumbai, qualunque sia la regia degli attacchi, si inquadra in una contesa di vasta portata condotta con strumenti politici, economici e militari da più soggetti: non solo India e Pakistan, ma Stati uniti, Russia e Cina. Principale terreno di confronto è l'Asia centrale, area di enorme importanza per la sua posizione geostrategica e per il controllo del petrolio del Caspio e dei «corridoi energetici».
L'epicentro è in Afghanistan. Qui s'impantanò per dieci anni l'esercito sovietico. Qui, nel 2001, sono arrivate le truppe statunitensi, ufficialmente per combattere i taleban e dare la caccia a bin Laden. L'obiettivo strategico è in realtà quello di occupare una posizione chiave nel nuovo scenario creato in Asia dalla disgregazione dell'Urss e dall'emergere delle potenze cinese e indiana. «Esiste la possibilità che emerga nella regione un rivale militare con una formidabile base di risorse», avvertiva un documento pubblicato dal Pentagono una settimana prima dell'invasione dell'Afghanistan.
Questo obiettivo strategico è stato confermato dal presidente eletto Barack Obama, che ha annunciato di voler «uscire dall'Iraq» e «passare al giusto campo di battaglia in Afghanistan e Pakistan». Viene quindi considerato campo di battaglia anche il Pakistan, ritenuto a Washington un alleato non molto affidabile, i cui servizi segreti sono sospettati di avere legami con i taleban. Quando nel gennaio 2008 gli Usa chiesero al presidente Musharraf di avere mano libera nelle zone di confine con l'Afghanistan, ricevettero un rifiuto. E, a causa della forte opposizione interna, anche l'attuale presidente Zardari appare riluttante.
A rendere ancora più complessa la situazione è la scelta di Washington di privilegiare le relazioni con l'India, per impedire un suo avvicinamento alla Russia e alla Cina. Rientra in tale politica l'accordo, ratificato il 2 ottobre dal senato, attraverso cui gli Stati uniti «legalizzano» il nucleare militare dell'India, che non ha mai aderito al Trattato di non-proliferazione, permettendole di mantenere otto reattori nucleari militari al di fuori di ogni controllo internazionale. Ciò spinge il Pakistan, che non ha mai aderito al Tnp, ad accelerare i suoi programmi nucleari militari. Col risultato che i due paesi già schierano complessivamente circa 110 testate nucleari e sono in grado di fabbricarne molte di più.
Su questo terreno entrano in gioco, in concorrenza con gli Usa, Russia e Cina. A settembre è stato confermato che la Russia fornirà all'India una portaerei con 16 Mig-29; contemporaneamente, la joint-venture russo-indiana BrahMos Aerospace ha annunciato che accrescerà la produzione di missili da crociera supersonici lanciati dall'aria, armabili con testate sia convenzionali che nucleari. La Cina sta invece stringendo relazioni particolarmente strette col Pakistan: il 18 ottobre è stato annunciato che il presidente Zardari, in visita a Pechino, ha firmato 12 accordi, uno dei quali impegna la Cina a costruire altri due reattori nucleari in Pakistan. La Cina fornisce inoltre al Pakistan caccia Jf-17 dotati di motori russi, la cui fornitura è stata autorizzata da Mosca.
Nella «guerra degli oleodotti», entra in gioco anche l'Iran, col progetto di un gasdotto che, attraverso il Pakistan, dovrebbe portare in India il gas iraniano. Sotto pressione statunitense, l'India non ha finora aderito all'accordo. L'Iran si è però dichiarato disponibile, l'11 ottobre, a costruire il gasdotto (costo 7,5 miliardi di dollari) fino in Pakistan, in attesa dell'adesione dell'India. Oggi ancora più difficile, dopo gli attacchi a Mumbai.