venerdì 28 novembre 2008

i coloni che vorrebbero lasciare la Cisgiordania

Rimonim, Cisgiordania - Circondati dall’ostilità, vivendo su una terra che la maggior parte del mondo vuole restituire ai palestinesi affinché vi creino un loro stato, si incontrano silenziosamente in insediamenti ebraici come questo, pianificando il futuro. Ma questi coloni assediati della Cisgiordania, ampiamente considerati come un ostacolo alla pace, sorprendentemente vogliono solo una cosa: andar via.
Mentre la stragrande maggioranza dei coloni dichiara di non voler assolutamente abbandonare il cuore della storica patria ebraica - queste antiche colline di una desolata bellezza i cui nomi biblici sono Giudea e Samaria - migliaia di altri coloni affermano di voler tornare entro i confini di Israele antecedenti al 1967.
Dicono che il progetto di colonizzazione della Cisgiordania - almeno nella parte che si trova al di là della barriera di separazione che Israele sta costruendo - è destinato al fallimento, e che le loro vite sono in pericolo. Molti dicono anche qualcos’altro: l’occupazione israeliana delle terre rivendicate dai palestinesi è sbagliata, e loro non vogliono avere alcun ruolo in essa. Ma le loro case non hanno alcun valore, e dunque si trovano bloccati. Vogliono aiuto.
”Sono venuto qui 25 anni fa, a vivere in campagna ed a crescere la mia famiglia”, ha detto David Avidan mentre sedeva nel soggiorno di un vicino, una sera di pochi giorni fa, per discutere una strategia per andarsene. “Volevamo colonizzare di nuovo tutta la terra di Israele”, ha aggiunto. “Ma ora, quando vedo come i nostri soldati trattano i palestinesi ai checkpoint, mi vergogno. Voglio che ce ne andiamo di qui. Voglio due Stati per due popoli. Ma non posso ottenere denaro in cambio della mia casa, e non posso andarmene”.
Ci sono 280.000 coloni in Cisgiordania (oltre ai più di 200.000 ebrei israeliani che vivono a Gerusalemme Est, anch’essa presa nel 1967), e la stragrande maggioranza è fermamente determinata a rimanere, e ad opporsi ad uno Stato palestinese in queste terre. Ma 80.000 di essi vivono al di là della barriera, e i sondaggi indicano che molti vorrebbero andarsene. Se lo facessero, altri potrebbero seguirli volontariamente.
“Abbiamo fatto un sondaggio tre anni fa, e di nuovo uno lo scorso anno, ed i risultati sono stati gli stessi”, ha detto Avshalom Vilan, un parlamentare del partito di sinistra Meretz. “La metà dei coloni al di là della barriera è motivata ideologicamente, e non vuole andarsene. Ma circa il 40% di essi è pronto ad andar via ad un prezzo ragionevole”.
Vilan è uno dei leader di un movimento chiamato ‘Bayit Ehad’, o ‘One Home’, che vuole una legge che stanzi 6 miliardi di dollari per acquistare le case di 20.000 famiglie, in modo da permettere loro di ricominciare da capo all’interno dei confini di Israele. Gran parte della dirigenza di Kadima - il partito centrista al governo – insieme al Partito Laburista, più orientato a sinistra, sostiene la legge in linea di principio, e il governo ha ascoltato diverse presentazioni di questa legge.
Ma la leadership al potere ha smesso bruscamente di appoggiarne l’approvazione, per paura di creare una spaccatura esplosiva nella società israeliana. Vi è anche la preoccupazione che un passo del genere equivalga a dar via una risorsa senza ottenere nulla in cambio dai palestinesi - un atto unilaterale simile al ritiro da Gaza di tre anni fa, che ha rafforzato il gruppo militante islamico di Hamas, e che è considerato in Israele come un fallimento.
I sostenitori della legge dicono che quella del ritiro da Gaza è una falsa analogia, perché un ritiro dei coloni dalla Cisgiordania rafforzerebbe l’Autorità Palestinese (ANP) sotto la guida del Presidente Mahmoud Abbas. L’ANP sta cercando di convincere l’opinione pubblica palestinese che due Stati sono possibili.
I sostenitori della legge aggiungono che il punto principale è quello di avviare il trasferimento rapidamente, al fine di incoraggiare altri a fare altrettanto, dando inizio ad un processo ordinato per compiere un’impresa che è politicamente ed emotivamente complessa.
Non succederà nulla prima delle elezioni di febbraio, ma i sostenitori della legge sperano che, se il ministro degli Esteri Tzipi Livni, di Kadima, otterrà un numero di voti abbastanza consistente per formare il prossimo governo, deciderà di andare avanti con rapidità. La Livni ha dichiarato che non appena vi saranno le condizioni per una soluzione a due Stati, sarà disposta a prendere maggiormente in considerazione l’idea di far passare la legge.
I coloni che hanno preso posizione a favore di un tale passo dicono che la vita è ormai difficile.
Benny Raz, 55 anni, che ha vissuto con la sua famiglia nell’insediamento di Karnei Shomron a partire dalla metà degli anni ‘90, negli ultimi anni ha cominciato a chiedere una via d’uscita, invitando il governo ad acquistare la sua casa e quelle dei coloni suoi compagni.
“I miei vicini di casa mi guardavano come se fossi un traditore, o come se venissi da un altro pianeta”, ha raccontato. Ha detto di essere stato licenziato dal suo posto di lavoro come responsabile dei conducenti di autobus dell’insediamento, e che il chiosco di panini di sua moglie è stato boicottato e fatto fallire.
”Ho ricevuto telefonate minacciose in cui mi dicevano che mi avrebbero ammazzato”, ha detto. “Oggi, porto con me una pistola, perché ho paura degli ebrei, non degli arabi”.
Herzl Ben Ari, sindaco di Karnei Shomron, ha detto che il signor Raz è stato licenziato per incompetenza, e che il chiosco di panini ha avuto problemi igienici, due questioni estranee alla sua attività politica. Dani Dayan, presidente del Consiglio dei coloni, ha detto che, se gli immobili di alcune comunità hanno perso valore, la maggior parte delle case negli insediamenti in Cisgiordania ha ancora prezzi elevati.
”Questa legge è psicologica”, ha detto in riferimento alla proposta di legge. “Vogliono far pressione su di noi e sull’opinione pubblica israeliana per dare l’illusione che il nostro destino sia già segnato. A loro piace dire che tutti sanno che, alla fine, queste comunità non esisteranno più. Io dico il contrario. Sempre più persone, qui e all’estero, stanno iniziando a capire che non ci sarà nessuno Stato palestinese su queste terre”.
Alcune case, abbandonate dai coloni che non erano disposti a rimanere, sono state occupate da giovani famiglie religiose che pagano un affitto minimo, e che sono state indirizzate in questi luoghi dalla leadership dei coloni. Vilan, il parlamentare di sinistra, ha detto che, con la sua legge, traslocare nelle case degli insediamenti acquistate dal governo sarebbe un reato punibile con una pena fino a cinque anni di reclusione.
‘One Home’ ha tenuto decine di incontri in giro per gli insediamenti in Cisgiordania, invitando coloro che vogliono andarsene a diventare attivi nel movimento.
Nel corso di un incontro qui a Rimonim, molte persone hanno detto di aver paura che ciò che è accaduto a Benny Raz possa accadere anche a loro.
Una fra coloro che Benny Raz ha contribuito a convincere, durante una precedente riunione, è Monika Yzchaki dell’insediamento di Mevo Dotan che, come l’insediamento del signor Raz, è nella metà settentrionale della Cisgiordania, e si trova dall’altra parte della barriera. Vi si è trasferita 16 anni fa con suo marito e i bambini piccoli.
”Siamo venuti qui per avere una casa che potessimo mantenere, in una buona situazione”, ha detto per telefono. “Molti non capiscono che ci sono molti di noi che non sono né estremisti né pazzi. Ora devo mostrare il passaporto alla barriera per poter tornare a casa. Ora vivo in Palestina. Era normale che io pensassi che questo fosse il mio paese, e che loro pensassero che fosse il loro. Oggi è evidente che questo è il loro paese.” Poi ha aggiunto: ”Sono in grado di elencare 40 famiglie che vogliono andarsene, ma hanno paura di dirlo ad alta voce.”
Interpellata su quale fosse il suo punto di vista riguardo ad uno Stato palestinese, ha detto: “Credo che dovrebbe esserci una soluzione a due Stati. Non si può vivere con persone che non hanno l’indipendenza. Devono imparare la loro lingua, insegnare ai loro figli il loro patrimonio culturale. Ma questo è il loro problema. Il mio problema è che il mio governo mi ha abbandonato”
Ethan Bronner è direttore degli uffici di Gerusalemme del New York Times; in precedenza ha lavorato nell’unità investigativa del giornale, occupandosi degli attacchi dell’11 settembre; tra il 1985 ed il 1997 aveva lavorato per il Boston Globe, del quale era stato a lungo corrispondente per il Medio Oriente, da Gerusalemme
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La nuova propaganda del Pentagono in Iraq

Negli ultimi mesi, il segretario americano alla Difesa, Robert Gates, ha ricevuto molti apprezzamenti per aver ridimensionato i toni della retorica trionfalistica che aveva contrassegnato le prime fasi della cosiddetta ‘guerra al terrore’. L’enfasi da lui posta sulla necessità di “un senso di umiltà, ed un riconoscimento dei limiti” è una dolce musica per coloro che mettono in discussione la necessità di fare automaticamente ricorso ad un uso sproporzionato della forza per difendere gli interessi nazionali degli Stati Uniti.
Ma vi è un settore in cui Gates non è altrettanto modesto o consapevole dei limiti quanto egli vorrebbe che fossero i militari. Nelle sue frequenti dichiarazioni in cui afferma che l’hard power non può ottenere tutto, Gates sottolinea che ciò di cui c’è bisogno è una dose maggiore di soft power (l’‘hard power’ di un paese designa la capacità che esso ha di esercitare la propria influenza attraverso mezzi eminentemente militari, o mezzi economici coercitivi; il ‘soft power’ designa invece la capacità di esercitare la propria influenza attraverso la diplomazia, la cultura e la storia (N.d.T.) ). Tuttavia, quello che emerge è che egli intende dosi massicce di soft power interpretate, ‘confezionate’, e distribuite dal Pentagono e dalle sue ditte appaltatrici.
E’ vero che, in un discorso tenuto nel novembre dell’anno passato, Gates disse che un altro ente governativo – il Dipartimento di Stato – avrebbe dovuto ottenere più fondi per le sue attività di soft power, che includono programmi di ‘public diplomacy’, come i suoi trascurati scambi culturali ed educativi
Tuttavia, poco notata tra le molto acclamate dichiarazioni di Gates vi è la seguente affermazione: “Non fraintendetemi, chiederò ulteriori fondi per la difesa l’anno prossimo”. Parte del denaro che Gates intende spendere, come ha recentemente riferito il Washington Post, sarà dedicata ad uno sforzo triennale – con una spesa di 300 milioni di dollari – per “coinvolgere e motivare” la popolazione dell’Iraq ad appoggiare il suo governo e le politiche USA, attraverso una serie di programmi che vanno dai prodotti mediatici all’intrattenimento (un’ulteriore somma di 15 milioni di dollari all’anno dovrebbe essere spesa per effettuare sondaggi d’opinione tra gli iracheni).
Si tratta di una cifra enorme per gli standard delle politiche di soft power. Il Dipartimento di Stato prevede di spendere appena 5,6 milioni di dollari in ‘public diplomacy’ in Iraq nell’anno fiscale 2008. Il denaro del Dipartimento della Difesa sarà distribuito fra quattro società appaltatrici private, incluso il Lincoln Group il quale, sulla base di accordi con il Pentagono, pagò segretamente alcuni giornali iracheni per stampare articoli scritti dai vertici militari americani ma pubblicati come notizie di prima mano.
Alcune voci critiche si sono levate nei confronti dell’iniziativa di Gates per accattivarsi i cuori e le menti degli iracheni. Jim Webb, senatore democratico della Virginia, il cui background militare e giornalistico lo rende ampiamente qualificato a parlare a proposito dell’uso del soft power da parte del Pentagono, scrisse in una lettera a Gates: “Mentre questo paese si trova di fronte ad una crisi economica così grave, e mentre il governo iracheno registra almeno 79 miliardi di dollari di surplus derivanti dagli introiti petroliferi, secondo me ha ben poco senso che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti spenda centinaia di milioni di dollari per fare propaganda nei confronti del popolo iracheno”.
Gli specialisti di ‘public diplomacy’ sono anch’essi rimasti sconcertati dalla missione di indottrinamento di Gates. Un noto esperto mi ha scritto tramite e-mail: “La comunicazione che è vista come propaganda non attrae, e di conseguenza non produce soft power”. Le voci critiche sottolineano che i finanziamenti del Dipartimento della Difesa non sono trasparenti, e ciò potrebbe tradursi nella perdita di credibilità dei suoi programmi nel momento in cui coloro a cui tali programmi sono indirizzati scopriranno da dove viene realmente il denaro. Una cosa del genere si è indubbiamente verificata nel corso della Guerra Fredda, quando emerse che la CIA era il segreto finanziatore di riviste intellettuali che erano in precedenza considerate indipendenti. L’ambasciatore iraniano in Iraq, Kazemi Qomi, ha già espresso le proprie rimostranze: “Quattro importanti compagnie nel settore dei media stanno dando il loro contributo al piano del Pentagono di incitare l’opinione pubblica irachena contro l’Iran e di guastare i rapporti fra Teheran e Baghdad”. Una simile “propaganda anti-iraniana”, ha affermato l’agenzia di stampa iraniana FARS, è “inutile”.
La costosa iniziativa di soft power del Pentagono non è limitata ad un pubblico straniero, ma include gli stessi Stati Uniti. Essa stabilisce la necessità di “comunicare in maniera efficace con le nostre audience strategiche (vale a dire con il pubblico iracheno, con quello arabo, con quello internazionale, e con quello degli Stati Uniti) per assicurare una diffusa approvazione dei temi e dei messaggi [del governo statunitense e di quello iracheno]”. Secondo Marc Lynch, uno specialista del settore dei media mediorientali, fare del “pubblico americano…un obiettivo chiave da manipolare attraverso la diffusione segreta di messaggi di propaganda dovrebbe essere considerato scandaloso, lesivo della democrazia, ed illegale”.
Scandaloso lo è certamente, ma questa abitudine di rendere la stessa patria americana un obiettivo fa parte del modo di operare del Dipartimento della Difesa, come confermano le rivelazioni del New York Times riguardo all’uso ‘militare’ di commentatori dei media nazionali in qualità di propagandisti del Pentagono (queste attività sono attualmente soggette ad un’indagine della Commissione federale delle comunicazioni). Nulla è peggiore del cattivo uso dell’hard power, come Gates ha giustamente suggerito. Tuttavia egli non sembra disposto ad ammettere che la stessa cosa è vera anche nel caso di ciò che il Pentagono interpreta come soft power.

John Brown ha servito nello ‘US Foreign Service’, il servizio diplomatico statunitense, per oltre vent’anni; attualmente è ‘senior fellow’ presso il Center on Public Diplomacy della University of Southern California

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mercoledì 26 novembre 2008

Ancora su Obama

Se Curzi, tromboneggia sui diritti dei lavoratori e poi mette in mezzo a una strada i giornalisti scomodi, privilegiando gli amici degli amici, i figli dei padri e della nomenclatura, eppure si merita gli appassionati elogi del “manifesto”, perché stupirsi se lo stesso “giornale comunista” conferma con il titolo “Il team dei migliori” le agghiaccianti scelte reazionar-clintoniane del novello profeta nero per la sua camarilla di governo. Segretario di Stato Hillary Clinton, co-stragista di serbi, palestinesi e iracheni, creatura più simile alla Medusa rettilo-chiomata che a femmina umana; del sionista ultrà, terrorista figlio di terroristi israeliani, Rahm Emmanuel, capo dello staff e che rimproverò Bush di non essere sufficientemente filoisraeliano, s’è già detto in passato; anche della sua conventicola di banchieri bancarottieri, vezzeggiata con il voto a favore degli 850 miliardi di salvataggio, capeggiata da quel lobbista di Robert Rubin, mallevadore sotto Clinton di un neoliberismo privatizzatore, deregolante e predatore che neppure Reagan si era sognato. Ci sono tutti, sembra di stare nei saloni di Vlad, in Transilvania. Tutti: i Goldman Sachs, i Lehman Brothers, i Warburg, i Chase Manhattan, I Rothschild, i Lazard Fréres, la fallita (nonostante le operazioni planetarie sulla droga, insieme alla Cia e alla Dea) Citybank. E poi i militari, garanti dell’espansione dell’impero, dal superfalco generale Larry Jones, neoconsigliere nazionale per la Sicurezza (quello dello stato di polizia a casa e dei genocidi fuori), all’apparentemente confermato ministro della guerra a mezzo mondo, Robert Gates.
Ce ne sono altri, ve li risparmio, e non c’è neanche la punta della scarpa di uno non conservatore, non di destra, non dell’establishment (il quale establishment non per nulla gli ha dato più quattrini di qualsiasi presidente della storia Usa), espressione di quel movimento di massa che dal compagno Barack pensava di essere traghettato a nuova vita. E’ il CAMBIAMENTO, bellezza. Yes we can fuck you, brutti cretini. E noi, brutti cretini, a farci spremere gli ultimi sghei dal “manifesto”, sebbene non più privato dell’obolo di Stato, per farci rifilare questa pillola di cianuro indorata. Naturalmente l’agente Cia Al Zawahiri gli ha subito dato il conforto delle sue minacce e del suo anatema. Ci possiamo aspettare altri cataclismi “antiterroristici” e antislamici.
Un’ultima chicca. Chi sono i prescelti dall’illusionista nero per rivedere l’intero apparto di intelligence e reimpostare i 14 servizi segreti, cruciali per la guerra infinita, interna ed esterna? John Brennan e Jami Miscik, già funzionari Cia sotto il bushista George Tenet che, rispettivamente, hanno collaborato alle intercettazioni illegali a 360 gradi, ai rapimenti e alle torture delle extraordinary renditions, e alla costruzione della bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam. Sullo sfondo, ma nel ruolo di supervisori del tutto, i protagonisti del roll back , cioè dell’"arrotolamento", dell’Unione Sovietico e oggi dello scontro con la Russia per il dominio in Asia: Madeleine Albright, Zbigniew Brzezinski, lo stesso Gates e tutti i loro accoliti nel Pentagono. E la CONTINUITA’ bellezza.
Qualcuno, anche i neokeynesiani del “manifesto”, parla di un nuovo Roosevelt, di un altro New Deal, dimenticando che il capitalismo Usa oggi è assai più debole. Allora c’era una nazione creditrice, con attivi commerciali e la manifattura che dominava i mercati globali. Cionostante, fu soltanto sotto la pressione di lotte semi-insurrezionali, come lo sciopero di Toledo Autolite, lo sciopero generale di Minneapolis, di San Francisco e dell’industria automobilistica e grazie alla seconda guerra mondiale, con i milioni di persone tolte di mezzo, che il paese uscì dalla crisi. La crisi di oggi è il risultato di un declino protratto del capitalismo nordamericano, di debiti le cui cifre non si possono contenere in una riga di A4, la decimazione della sua base produttiva e il cui sistema finanziario è diventato la locomotiva di una recessione planetaria. Allora Roosevelt, assistito da sindacati gialli e da un PC come al solito stalinisticamente moderato e compiacente, riuscì a uscire dalla crisi ed evitare una rivoluzione socialista. Oggi, non fosse per la sciagurata dispersione o complicità delle sinistre, la situazione sarebbe più favorevole al cambiamento. Osama lo brandisce proprio per esorcizzarlo. Attenti ai colpi di coda
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Curzi, il compagno comodo

Io non sono, per esperienza diretta, molto d’accordo col grande Brecht quando afferma “beato il popolo che non ha bisogno di eroi”...
Forse, se Berthold avesse scritto "beato chi non ha bisogno di eroi…fasulli”. Sono quelli che vengono celebrati e incensati, perlopiù dopo morti, da peana bipartisan, anzi, onnipartisan, che, come da scienza e logica risulta, sono peana i cui direttori d’orchestra stanno sempre a destra...
In campo giornalistico abbiamo due esempi recenti: Enzo Biagi, qualunquista ed eroe del senso comune, campione di salace e banale buonismo, che al massimo poteva dar fastidio al guitto mannaro, uno che si adonta di chiunque non gli lecchi il tacco rialzato. Con lui, tanti anni fa, andai a intervistare il premier austriaco Bruno Kreisky a Vienna e mi trovai a girare con un ometto che spurgava velenoso astio e spocchiosa irrisione su tutto e tutti, dandosi da grande e volgare macho alla vista di ogni passaggio di “culi e tette”.
Ora tocca a Sandro Curzi e, meritatamente, i coccodrilli più lacrimosi e osannanti glie li hanno fatti campioni dell’etica, dell’idealismo, della coerenza, della professione, come Bertinotti, Veltroni, Petruccioli. Dagli Usa hanno addirittura riesumato Christiane Amanpour, vedette della CNN e concorrente di Oriana Fallaci per chi le sparava più false, razziste e guerrafondaie. Mancavano solo i mafiopizzinari D’Alema e La Torre, troppo affaccendati nell’eterno, tanto fetido quanto grottesco, wrestling con Veltroni e Bettini, a base di chi si fa inchiappettare meglio dai vari Finisconi. Immaginatevi questa nauseante conventicola tutta riunita in un salone e vi parrà di rivedere quel tremendo affresco che il più grande cineasta politico italiano, Elio Petri, ha tratteggiato della criminalità forchettara democristiana in “Todo modo”. Un osceno intruglio di facce grifagne, trasudanti falsità e corruzione, pervasi da livorosa bulimia predatrice, rotti a ogni vertice di ipocrisia clericale e a ogni abisso di depravazione profana. Quelli, tra preti assassini e politici ladroni, finirono col farsi fuori a vicenda. Un horror che il verminaio uscito dalla covata togliattian-morotea ci ripropone oggi come remake a livelli ultrà. Senza, per ora, l’esito positivo, letale, dell’originale.
Questa è la gente che ha tessuto l’apologia del “grande giornalista”, dell’”uomo di strada”, del “compagno scomodo”, come il pelatone incazzoso ha avuto l’improntitudine di auto-onorarsi in un’agiografia autobiografica. E questi erano i suoi amici, referenti, compagni di bisbocce populistiche. Io ci ho lavorato, con Curzi, per la maggior parte della sua monarchia assoluta al Tg3. Ed era in effetti un TG3 fuori dal coro, nella misura in cui glielo consentiva prima un PCI, non del tutto disancorato dalla sua base intellettuale e proletaria, e poi un PDS-DS che dipendeva per le sue prospettive governiste dal voto anche di chi, prima di essere addomesticato dall’imbonitore rinnegato Bertinotti, credeva e voleva antagonista Rifondazione. Conviene dunque che parli di Curzi partendo da me.
A Curzi, quando ancora imperversava con la sua iperpopulista “ggente” (altro che lotta di classe), gli stessi che in morte lo hanno beatificato davano del “trombone, da quel fragoroso vuoto a rendere per ogni stagione che era. Durante i cinque anni che trascorsi a “Paese Sera”, corrispondente da Londra e poi inviato di guerra, lo vidi una sola volta. Era un vicedirettore totalmente oscurato e inerte sotto la ferula di due direttori che avevano inventato il migliore giornale italiano: Fausto Coen, detronizzato per filosionismo quando dalla Guerra dei Sei Giorni ebbi modo di raccontare le efferatezze di quello Stato razzista e fascistoide, e poi Giorgio Cingoli. Mi rivolsi a lui per un sostegno contro le critiche che mi piovevano da Cingoli per essere nei miei reportage troppo schierato con il movimento del ’68, odioso all’editore di riferimento, il PCI. Curzi si mostrò comprensivo e partecipe e… non mosse un dito, dando prova di quell’atteggiamento bifronte e bipartisan di cui avrei avuto conferma vent’anni più tardi.
Lo ritrovai nel 1989 quando, assunto in Rai al Tg3, ero stato parcheggiato prima a “Uno Mattina” del TG1, e poi all’”Evelina”, un ufficio pseudogiornalistico che smistava le immagini dalle e alle televisioni estere. Mi ci vollero due anni, con l’appoggio del sindacato di Beppe Giulietti, per convincere il direttore del telegiornale di sinistra, al quale avevo chiesto l’assunzione, di accettarmi nella sua redazione. Una redazione infarcita di piccisti, come di socialisti, democristiani, liberali, sionisti (sull’entrata alla redazione esteri campeggiava la scritta “Questa è una redazione filoisraeliana”), in perfetto sincronismo con gli equilibri politici in atto, seppure nell’intesa che il Tg3 sarebbe stato quello di “sinistra”, a fronte del socialista e del democristiano. Appunto “Telekabul”, ma poi presto, cacciati i sovietici dall’Afghanistan, ahinoi “Telepapa”, con quel Benedetti all’orecchio di Woytila e del catto-Cia Walesa, che venne fatto passare per “grande vaticanista”. Qualche credenziale, per la verità, al Tg3 la portavo: cinque anni alla BBC, anni di inviato per alcune grandi testate nazionali e straniere, quattro lingue (l’inglese non lo sapeva nessuno), esperienza di quattro continenti e molte guerre e rivoluzioni, tre anni da inviato ambientalista al Tg1… Modestamente, per il telegiornale un po’ burino di allora, quasi una scala reale. Ma mi mancava l’asso: la tessera, la casella. Non ero iscritto a nessun partito e nemmeno alla parrocchia, nessun boiardo di Stato si dava la minima cura di me. Così sguarnito degli attributi richiesti, alla faccia della professionalità. non solo gli risultavo umanamente sgradevole, ma avrei scombinato il meticoloso mosaico di caselle che garantivano la sua direzione e tenevano soddisfatti i vari sponsor e padrini.
L’ambiente non contava una mazza nel giornalismo di allora. Ma WWF, Legambiente, Italia Nostra, Greenpeace e movimenti di base andavano guadagnando interesse e consenso di elettori e spettatori. Su loro sollecitazione, Curzi iniziò ad occuparsi, di malavoglia, di ambiente. Era dunque la cenerentola tra le tematiche redazionali e così risultò opportuno rinchiudere il sottoscritto nella nuova, marginale, collocazione di “esperto ecologico”, togliendomi da quella redazione “filoisraeliana” a cui Curzi era arrivato a rendere commosso omaggio per come aveva sostenuto, papisticamente e colonialisticamente, la “liberazione” della secessionista Croazia mentre praticava il genocidio della Jugoslavia e dei serbi che si trovavano alla sua mercè. Mi inventai una rubrica chiamata “I tempi che corrono”, nella quale raccontavo il tempo meteorologico alla luce dei tempi climatici e sociali che dal Nord si abbattevano sul pianeta. La conduttrice del programma di cui avevo una rubrica, Donatella Raffai, si adombrò perché in una puntata avevo, turbando le sue gioconde facezie, inserito qualche bambino rinsecchito dalla desertificazione euro-indotta dell’Africa. Senza battere ciglio, fui esorcizzato e sbattuto in Cronaca Nera. Ma lo stesso Curzi venne impietosamente cacciato dai suoi boss diessini quando, avanzati nel voto, pensavano di poter sostituire al minuscolo Tg3 il ben più remunerativo Tg1. Operazione che figurati se i volponi dell’altra parte, già intrisi di spirito santo berlusconiano, avrebbero consentito. Il detronizzato finì a dirigere il giornaletto del PRC, “Liberazione”. Per un destino sardonico, ci saremmo rivisti anche lì.
Fu il successore di Curzi, grigio, accomodante e democristiano, a ridarmi, sotto pressione di un mondo ambientalista sempre più autorevole e istituzionalizzato, nonchè di una stampa benevola, una rubrica di traino al Tg3 delle 19.00: “Vivere!”. Non durò mica tanto. In concomitanza con il lento declino della lotta contro la distruzione del pianeta in termini climatici, parallela all’accentuarsi della distruzione sociale e bellica, la rubrica perse di interesse, sebbene più per la classe politica che per la “ggente”. Fu nuovamente cassata e tornai agli esteri. Tra la proliferazione incontrollata dei successori di Curzi, diretta conseguenza di equilibri politico-economici-clericali non assestati (siamo nella seconda metà degli anni ’90), piombò anche la vernacolare dalemian-agnelliana Lucia Annunziata. La ricordo giusto per avermi intimato, se proprio volevo fare delle corrispondenze dall’Iraq divorato dalla prima guerra del Golfo, dall’embargo e da incessanti bombardamenti, di non osare di presentarmi con immagini di bimbetti devastati dall’uranio, o uccisi da fame o diarrea. “Mica vogliamo fare un favore a quel delinquente di Saddam e un torto ai nostri amici!”, ingiunse. “Fammi vedere i palmeti di datteri, le rovine di Babilonia, un po’ di colore mesopotamico…”
Amico e compare degli amici come dei “nemici”, sodale, nella corporazione dei giornalisti, di chiunque avesse influenza, dall’estrema destra all’estrema sinistra, primo sdoganatore del MSI ancora bandito dall’Arco Costituzionale formalmente antifascista, trombettiere di tutte le false cause “umanitarie”, da Sarajevo a Tien An Men, assuntore di figli e congiunti dei potenti, Curzi, tuttavia, nello spazio garantitogli dall’allora forza compartecipe della gestione tangentopolista del paese, aveva con sé un gruppetto di giovani che i suoi proclami buonsensisti li traducevano in giornalismo eterodosso, a volte audace, contaminato dalla contigua “Samarcanda” di Santoro. Finchè durò. Non si ripetè questa qualità a “Liberazione”, giornale in cui entrai in fuga dal servilismo euro-atlantico-papista che il Tg3 manifestò in occasione dei crimini di guerra dalemiani in Jugoslavia. Per la verità, lo scafato marpione mi accolse a braccia aperte e subito mi spedì a Belgrado, poi in Palestina, poi in Iraq, poi a Cuba: uno del Tg3, anche abbastanza noto, non era acquisto da poco per il giornaletto del monarca Bertinotti. Con quest’ultimo, in travolgente corsa verso compiacenze padronali e imperiali e conseguenti elevati scranni, mi trovai ben presto in divergenza. Mi si tollerava perché la base del partito pareva essermi affezionata. In particolare l’ala di sinistra, che faceva capo all’”Ernesto”. Quello che scrivevo dai paesi elencati non quadrava con gli stereotipi dell’intossicazione mediatica ufficiale: come ci si poteva permettere di contrastare la versione dei serbi etnopulitori e ipernazionalisti, come la presa di distanza dai combattenti palestinesi, come la satanizzazione di Saddam e di tutto il “terrorismo islamico”? Perché ci si ostinava a parlare di un imperialismo e di lotte di liberazione e di classe, quando tutto questo il pontefice cashmirato aveva archiviato negli scaffali del “sanguinario Novecento”?
Straordinario Curzi. Bertinotti gli ingiungeva di mettermi il morso e tirarmi le briglie e lui mi convocava per chiedermi in tono querulo “fai attenzione, non eccedere, prova a moderarti, io ti capisco (faceva finta di parteggiare per “L’Ernesto”), la penso come te, ti difendo, non rendermi la vita difficile, gli equilibri sono quelli che sono, vedrai domani… Accanto aveva Claudio Grassi, leader dell’”Ernesto”, che annuiva solidale. Pareva di essere tra gli olimpionici dell’ipocrisia di “Todo Modo”. Un istante dopo avrebbe sbattuto per Bertinotti i tacchi e disteso quel suo sorriso da coccodrillo addomesticato. Tutto questo ebbe la sua summa nel maggio del 2003, quando, insieme a un drappello di irriducibili della deontologia professionale, prima ancora che della solidarietà politica, tentammo di inserire spilli nel pallone delle false accuse a Cuba. Bertinotti aveva deciso che conveniva far da prestigioso solista nel coro di coloro che onoravano terroristi cubani, dirottatori e mercenari prezzolati dalla potenza assediante, della qualifica di “intellettuali dissidenti”. Come Bush e la mafia di Miami dettavano. Da conclamato amico e difensore di Cuba, il “compagno scomodo” subito si accomodò nell’operazione ordita dal terrorismo di Stato Usa e rilanciata dal suo principale. Un rapporto professionale e umano durato dal 1967 al 2003 fu incenerito nell’autodafé del mio licenziamento in 24 ore (Il PRC e “Liberazione” erano coerentemente impegnati nella difesa a oltranza dell’Articolo 18), senza neanche la letterina di prammatica del direttore: “Dobbiamo purtroppo rinunciare alle tue prestazioni, bla bla bla, ti ringraziamo, bla bla bla. La decapitazione mi fu comunicata dall’amministratore per telefono. L’input era stato chiaramente del futuro presidente della Camera. Qualcuno si sollevò contro questa smagliante osservanza della libertà d’espressione, duemila firme di iscritti bersagliarono il palazzo di Via del Policlinico. Curzi e la sua iperbertinottesca, ma anche dalemista vice, Rina Gagliardi, si affannarono sul giornale a spiegare che ero io il responsabile della rottura, visto che non solo non mi ero attenuto strettamente all’esclusivo tema ambientalista (mai assegnatomi), ma avevo anche trasgredito la “linea del partito”. Mi chiedo cosa dovrebbe fare oggi il povero Ferrero, segretario di un partito che si chiama della Rifondazione Comunista, di un Sansonetti-Sionetti che, da dichiarato non comunista, passa la giornata al videogioco intitolato “Come si rema contro la linea del partito”.

Poco tempo prima, sprovveduti e bravi compagni lombardi mi avevano candidato al Senato. Mentre battevamo palmo per palmo, mercato per mercato, bar per bar, la sconfinata bassa del Po, arrivavano, seppi più tardi, ansiosi avvertimenti da Roma perché non ci si desse “troppo da fare per la vittoria di Grimaldi, non è gradita”. Vinse Forza Italia. A me mancarono 200 voti su 18mila. Come si era meritato ampiamente, mentre il suo mentore e sovrano ascendeva al terzo scranno della Repubblica, in sintonia Curzi fu elevato al consiglio d’amministrazione della Rai. E qui, visto che ormai non c’era più niente da perdere o da guadagnare, il “compagno” di una mai esplicitata Resistenza si rivelò finalmente al volgo e all’inclita, insomma alla “ggente” nella sua vera natura, scevra, per cura bertinottiana, di ogni fisima di parte, cioè di quella parte. Fu quando il cda venne chiamato dal direttore generale Cappon a pronunciarsi sulla sua richiesta di sbattere fuori dalle palle Agostino Saccà, l’uomo-fiction del Servizio Pubblico che, intercettato mentre leccava i piedi a un Berlusconi in fregola di sistemare le sue cortigiane, si era fatto “scendiletto delle brame più basse del padrone” (Tafanus). Votarono per la cacciata dell’immondo personaggio i consiglieri del centrosinistra, contro, quelli di un’opposizione con gli aculei sullo stomaco. Curzi, il postcomunista, si astenne. E lo salvò. Coronamento di un’onorata carriera.
Voglio chiudere con un po’ di quel “colore” che tanto si è fatto strada nei tg da allora. Sandro Curzi compie 70 anni e lo si festeggia nel loft del Palazzo delle Esposizioni. Siamo invitati in 400. Noialtri ai tavolini nei remoti margini, A cerchi concentrici verso il protagonista in sollucchero l’intera combriccola della paludata malainformazione nazionale. Bonzi e palloni gonfiati, venerandi maestri e pennivendoli in auge. Mentitori di professione. Emissioni impure dalle froge dei licantropi. Ma questo è niente. Colui al quale “il manifesto” titola due paginoni con “Sandro, scomodo, prezioso compagno” aveva organizzato una coreografia che la parata ddl Columbus Day a New York è niente al confronto. Sul palazzone di fronte, a frotte di romani e turisti sbigottiti, veniva proiettata, dal calar del buio a notte e festeggiamenti inoltrati, il colossal della vita e delle imprese di Sandro Curzi. Lo stesso su una dozzina di schermi all’interno. Un Curzi panottico, in cinerama, da consegna, se non all’eternità, ai posteri. D’Annunzio a Fiume, Augusto sul Campidoglio, Gesù in croce e in gloria. Curzi con Togliatti, Curzi con Moro, Curzi con Brezhnev e Gorbaciov, Curzi, scendendo rapidamente, nella dispensa di Bertinotti, Curzi a Praga, Curzi con la mosca al naso e con il naso a Mosca, Curzi a Las Vegas, Curzi in salotto, Curzi sul cavallo della Rai, Curzi in tuta, Curzi in pigiama, Curzi con fiche, Curzi con la consorte, di profilo, a figura intera, nel vento, nella neve, immacolato, smagliante, svettante. La chiusa non avrebbe potuto che essere, e forse lo sarà, Curzi sepolto nel Pantheon.
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venerdì 14 novembre 2008

Obama, ovvero il rossetto sul maiale

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