mercoledì 26 novembre 2008

Curzi, il compagno comodo

Io non sono, per esperienza diretta, molto d’accordo col grande Brecht quando afferma “beato il popolo che non ha bisogno di eroi”...
Forse, se Berthold avesse scritto "beato chi non ha bisogno di eroi…fasulli”. Sono quelli che vengono celebrati e incensati, perlopiù dopo morti, da peana bipartisan, anzi, onnipartisan, che, come da scienza e logica risulta, sono peana i cui direttori d’orchestra stanno sempre a destra...
In campo giornalistico abbiamo due esempi recenti: Enzo Biagi, qualunquista ed eroe del senso comune, campione di salace e banale buonismo, che al massimo poteva dar fastidio al guitto mannaro, uno che si adonta di chiunque non gli lecchi il tacco rialzato. Con lui, tanti anni fa, andai a intervistare il premier austriaco Bruno Kreisky a Vienna e mi trovai a girare con un ometto che spurgava velenoso astio e spocchiosa irrisione su tutto e tutti, dandosi da grande e volgare macho alla vista di ogni passaggio di “culi e tette”.
Ora tocca a Sandro Curzi e, meritatamente, i coccodrilli più lacrimosi e osannanti glie li hanno fatti campioni dell’etica, dell’idealismo, della coerenza, della professione, come Bertinotti, Veltroni, Petruccioli. Dagli Usa hanno addirittura riesumato Christiane Amanpour, vedette della CNN e concorrente di Oriana Fallaci per chi le sparava più false, razziste e guerrafondaie. Mancavano solo i mafiopizzinari D’Alema e La Torre, troppo affaccendati nell’eterno, tanto fetido quanto grottesco, wrestling con Veltroni e Bettini, a base di chi si fa inchiappettare meglio dai vari Finisconi. Immaginatevi questa nauseante conventicola tutta riunita in un salone e vi parrà di rivedere quel tremendo affresco che il più grande cineasta politico italiano, Elio Petri, ha tratteggiato della criminalità forchettara democristiana in “Todo modo”. Un osceno intruglio di facce grifagne, trasudanti falsità e corruzione, pervasi da livorosa bulimia predatrice, rotti a ogni vertice di ipocrisia clericale e a ogni abisso di depravazione profana. Quelli, tra preti assassini e politici ladroni, finirono col farsi fuori a vicenda. Un horror che il verminaio uscito dalla covata togliattian-morotea ci ripropone oggi come remake a livelli ultrà. Senza, per ora, l’esito positivo, letale, dell’originale.
Questa è la gente che ha tessuto l’apologia del “grande giornalista”, dell’”uomo di strada”, del “compagno scomodo”, come il pelatone incazzoso ha avuto l’improntitudine di auto-onorarsi in un’agiografia autobiografica. E questi erano i suoi amici, referenti, compagni di bisbocce populistiche. Io ci ho lavorato, con Curzi, per la maggior parte della sua monarchia assoluta al Tg3. Ed era in effetti un TG3 fuori dal coro, nella misura in cui glielo consentiva prima un PCI, non del tutto disancorato dalla sua base intellettuale e proletaria, e poi un PDS-DS che dipendeva per le sue prospettive governiste dal voto anche di chi, prima di essere addomesticato dall’imbonitore rinnegato Bertinotti, credeva e voleva antagonista Rifondazione. Conviene dunque che parli di Curzi partendo da me.
A Curzi, quando ancora imperversava con la sua iperpopulista “ggente” (altro che lotta di classe), gli stessi che in morte lo hanno beatificato davano del “trombone, da quel fragoroso vuoto a rendere per ogni stagione che era. Durante i cinque anni che trascorsi a “Paese Sera”, corrispondente da Londra e poi inviato di guerra, lo vidi una sola volta. Era un vicedirettore totalmente oscurato e inerte sotto la ferula di due direttori che avevano inventato il migliore giornale italiano: Fausto Coen, detronizzato per filosionismo quando dalla Guerra dei Sei Giorni ebbi modo di raccontare le efferatezze di quello Stato razzista e fascistoide, e poi Giorgio Cingoli. Mi rivolsi a lui per un sostegno contro le critiche che mi piovevano da Cingoli per essere nei miei reportage troppo schierato con il movimento del ’68, odioso all’editore di riferimento, il PCI. Curzi si mostrò comprensivo e partecipe e… non mosse un dito, dando prova di quell’atteggiamento bifronte e bipartisan di cui avrei avuto conferma vent’anni più tardi.
Lo ritrovai nel 1989 quando, assunto in Rai al Tg3, ero stato parcheggiato prima a “Uno Mattina” del TG1, e poi all’”Evelina”, un ufficio pseudogiornalistico che smistava le immagini dalle e alle televisioni estere. Mi ci vollero due anni, con l’appoggio del sindacato di Beppe Giulietti, per convincere il direttore del telegiornale di sinistra, al quale avevo chiesto l’assunzione, di accettarmi nella sua redazione. Una redazione infarcita di piccisti, come di socialisti, democristiani, liberali, sionisti (sull’entrata alla redazione esteri campeggiava la scritta “Questa è una redazione filoisraeliana”), in perfetto sincronismo con gli equilibri politici in atto, seppure nell’intesa che il Tg3 sarebbe stato quello di “sinistra”, a fronte del socialista e del democristiano. Appunto “Telekabul”, ma poi presto, cacciati i sovietici dall’Afghanistan, ahinoi “Telepapa”, con quel Benedetti all’orecchio di Woytila e del catto-Cia Walesa, che venne fatto passare per “grande vaticanista”. Qualche credenziale, per la verità, al Tg3 la portavo: cinque anni alla BBC, anni di inviato per alcune grandi testate nazionali e straniere, quattro lingue (l’inglese non lo sapeva nessuno), esperienza di quattro continenti e molte guerre e rivoluzioni, tre anni da inviato ambientalista al Tg1… Modestamente, per il telegiornale un po’ burino di allora, quasi una scala reale. Ma mi mancava l’asso: la tessera, la casella. Non ero iscritto a nessun partito e nemmeno alla parrocchia, nessun boiardo di Stato si dava la minima cura di me. Così sguarnito degli attributi richiesti, alla faccia della professionalità. non solo gli risultavo umanamente sgradevole, ma avrei scombinato il meticoloso mosaico di caselle che garantivano la sua direzione e tenevano soddisfatti i vari sponsor e padrini.
L’ambiente non contava una mazza nel giornalismo di allora. Ma WWF, Legambiente, Italia Nostra, Greenpeace e movimenti di base andavano guadagnando interesse e consenso di elettori e spettatori. Su loro sollecitazione, Curzi iniziò ad occuparsi, di malavoglia, di ambiente. Era dunque la cenerentola tra le tematiche redazionali e così risultò opportuno rinchiudere il sottoscritto nella nuova, marginale, collocazione di “esperto ecologico”, togliendomi da quella redazione “filoisraeliana” a cui Curzi era arrivato a rendere commosso omaggio per come aveva sostenuto, papisticamente e colonialisticamente, la “liberazione” della secessionista Croazia mentre praticava il genocidio della Jugoslavia e dei serbi che si trovavano alla sua mercè. Mi inventai una rubrica chiamata “I tempi che corrono”, nella quale raccontavo il tempo meteorologico alla luce dei tempi climatici e sociali che dal Nord si abbattevano sul pianeta. La conduttrice del programma di cui avevo una rubrica, Donatella Raffai, si adombrò perché in una puntata avevo, turbando le sue gioconde facezie, inserito qualche bambino rinsecchito dalla desertificazione euro-indotta dell’Africa. Senza battere ciglio, fui esorcizzato e sbattuto in Cronaca Nera. Ma lo stesso Curzi venne impietosamente cacciato dai suoi boss diessini quando, avanzati nel voto, pensavano di poter sostituire al minuscolo Tg3 il ben più remunerativo Tg1. Operazione che figurati se i volponi dell’altra parte, già intrisi di spirito santo berlusconiano, avrebbero consentito. Il detronizzato finì a dirigere il giornaletto del PRC, “Liberazione”. Per un destino sardonico, ci saremmo rivisti anche lì.
Fu il successore di Curzi, grigio, accomodante e democristiano, a ridarmi, sotto pressione di un mondo ambientalista sempre più autorevole e istituzionalizzato, nonchè di una stampa benevola, una rubrica di traino al Tg3 delle 19.00: “Vivere!”. Non durò mica tanto. In concomitanza con il lento declino della lotta contro la distruzione del pianeta in termini climatici, parallela all’accentuarsi della distruzione sociale e bellica, la rubrica perse di interesse, sebbene più per la classe politica che per la “ggente”. Fu nuovamente cassata e tornai agli esteri. Tra la proliferazione incontrollata dei successori di Curzi, diretta conseguenza di equilibri politico-economici-clericali non assestati (siamo nella seconda metà degli anni ’90), piombò anche la vernacolare dalemian-agnelliana Lucia Annunziata. La ricordo giusto per avermi intimato, se proprio volevo fare delle corrispondenze dall’Iraq divorato dalla prima guerra del Golfo, dall’embargo e da incessanti bombardamenti, di non osare di presentarmi con immagini di bimbetti devastati dall’uranio, o uccisi da fame o diarrea. “Mica vogliamo fare un favore a quel delinquente di Saddam e un torto ai nostri amici!”, ingiunse. “Fammi vedere i palmeti di datteri, le rovine di Babilonia, un po’ di colore mesopotamico…”
Amico e compare degli amici come dei “nemici”, sodale, nella corporazione dei giornalisti, di chiunque avesse influenza, dall’estrema destra all’estrema sinistra, primo sdoganatore del MSI ancora bandito dall’Arco Costituzionale formalmente antifascista, trombettiere di tutte le false cause “umanitarie”, da Sarajevo a Tien An Men, assuntore di figli e congiunti dei potenti, Curzi, tuttavia, nello spazio garantitogli dall’allora forza compartecipe della gestione tangentopolista del paese, aveva con sé un gruppetto di giovani che i suoi proclami buonsensisti li traducevano in giornalismo eterodosso, a volte audace, contaminato dalla contigua “Samarcanda” di Santoro. Finchè durò. Non si ripetè questa qualità a “Liberazione”, giornale in cui entrai in fuga dal servilismo euro-atlantico-papista che il Tg3 manifestò in occasione dei crimini di guerra dalemiani in Jugoslavia. Per la verità, lo scafato marpione mi accolse a braccia aperte e subito mi spedì a Belgrado, poi in Palestina, poi in Iraq, poi a Cuba: uno del Tg3, anche abbastanza noto, non era acquisto da poco per il giornaletto del monarca Bertinotti. Con quest’ultimo, in travolgente corsa verso compiacenze padronali e imperiali e conseguenti elevati scranni, mi trovai ben presto in divergenza. Mi si tollerava perché la base del partito pareva essermi affezionata. In particolare l’ala di sinistra, che faceva capo all’”Ernesto”. Quello che scrivevo dai paesi elencati non quadrava con gli stereotipi dell’intossicazione mediatica ufficiale: come ci si poteva permettere di contrastare la versione dei serbi etnopulitori e ipernazionalisti, come la presa di distanza dai combattenti palestinesi, come la satanizzazione di Saddam e di tutto il “terrorismo islamico”? Perché ci si ostinava a parlare di un imperialismo e di lotte di liberazione e di classe, quando tutto questo il pontefice cashmirato aveva archiviato negli scaffali del “sanguinario Novecento”?
Straordinario Curzi. Bertinotti gli ingiungeva di mettermi il morso e tirarmi le briglie e lui mi convocava per chiedermi in tono querulo “fai attenzione, non eccedere, prova a moderarti, io ti capisco (faceva finta di parteggiare per “L’Ernesto”), la penso come te, ti difendo, non rendermi la vita difficile, gli equilibri sono quelli che sono, vedrai domani… Accanto aveva Claudio Grassi, leader dell’”Ernesto”, che annuiva solidale. Pareva di essere tra gli olimpionici dell’ipocrisia di “Todo Modo”. Un istante dopo avrebbe sbattuto per Bertinotti i tacchi e disteso quel suo sorriso da coccodrillo addomesticato. Tutto questo ebbe la sua summa nel maggio del 2003, quando, insieme a un drappello di irriducibili della deontologia professionale, prima ancora che della solidarietà politica, tentammo di inserire spilli nel pallone delle false accuse a Cuba. Bertinotti aveva deciso che conveniva far da prestigioso solista nel coro di coloro che onoravano terroristi cubani, dirottatori e mercenari prezzolati dalla potenza assediante, della qualifica di “intellettuali dissidenti”. Come Bush e la mafia di Miami dettavano. Da conclamato amico e difensore di Cuba, il “compagno scomodo” subito si accomodò nell’operazione ordita dal terrorismo di Stato Usa e rilanciata dal suo principale. Un rapporto professionale e umano durato dal 1967 al 2003 fu incenerito nell’autodafé del mio licenziamento in 24 ore (Il PRC e “Liberazione” erano coerentemente impegnati nella difesa a oltranza dell’Articolo 18), senza neanche la letterina di prammatica del direttore: “Dobbiamo purtroppo rinunciare alle tue prestazioni, bla bla bla, ti ringraziamo, bla bla bla. La decapitazione mi fu comunicata dall’amministratore per telefono. L’input era stato chiaramente del futuro presidente della Camera. Qualcuno si sollevò contro questa smagliante osservanza della libertà d’espressione, duemila firme di iscritti bersagliarono il palazzo di Via del Policlinico. Curzi e la sua iperbertinottesca, ma anche dalemista vice, Rina Gagliardi, si affannarono sul giornale a spiegare che ero io il responsabile della rottura, visto che non solo non mi ero attenuto strettamente all’esclusivo tema ambientalista (mai assegnatomi), ma avevo anche trasgredito la “linea del partito”. Mi chiedo cosa dovrebbe fare oggi il povero Ferrero, segretario di un partito che si chiama della Rifondazione Comunista, di un Sansonetti-Sionetti che, da dichiarato non comunista, passa la giornata al videogioco intitolato “Come si rema contro la linea del partito”.

Poco tempo prima, sprovveduti e bravi compagni lombardi mi avevano candidato al Senato. Mentre battevamo palmo per palmo, mercato per mercato, bar per bar, la sconfinata bassa del Po, arrivavano, seppi più tardi, ansiosi avvertimenti da Roma perché non ci si desse “troppo da fare per la vittoria di Grimaldi, non è gradita”. Vinse Forza Italia. A me mancarono 200 voti su 18mila. Come si era meritato ampiamente, mentre il suo mentore e sovrano ascendeva al terzo scranno della Repubblica, in sintonia Curzi fu elevato al consiglio d’amministrazione della Rai. E qui, visto che ormai non c’era più niente da perdere o da guadagnare, il “compagno” di una mai esplicitata Resistenza si rivelò finalmente al volgo e all’inclita, insomma alla “ggente” nella sua vera natura, scevra, per cura bertinottiana, di ogni fisima di parte, cioè di quella parte. Fu quando il cda venne chiamato dal direttore generale Cappon a pronunciarsi sulla sua richiesta di sbattere fuori dalle palle Agostino Saccà, l’uomo-fiction del Servizio Pubblico che, intercettato mentre leccava i piedi a un Berlusconi in fregola di sistemare le sue cortigiane, si era fatto “scendiletto delle brame più basse del padrone” (Tafanus). Votarono per la cacciata dell’immondo personaggio i consiglieri del centrosinistra, contro, quelli di un’opposizione con gli aculei sullo stomaco. Curzi, il postcomunista, si astenne. E lo salvò. Coronamento di un’onorata carriera.
Voglio chiudere con un po’ di quel “colore” che tanto si è fatto strada nei tg da allora. Sandro Curzi compie 70 anni e lo si festeggia nel loft del Palazzo delle Esposizioni. Siamo invitati in 400. Noialtri ai tavolini nei remoti margini, A cerchi concentrici verso il protagonista in sollucchero l’intera combriccola della paludata malainformazione nazionale. Bonzi e palloni gonfiati, venerandi maestri e pennivendoli in auge. Mentitori di professione. Emissioni impure dalle froge dei licantropi. Ma questo è niente. Colui al quale “il manifesto” titola due paginoni con “Sandro, scomodo, prezioso compagno” aveva organizzato una coreografia che la parata ddl Columbus Day a New York è niente al confronto. Sul palazzone di fronte, a frotte di romani e turisti sbigottiti, veniva proiettata, dal calar del buio a notte e festeggiamenti inoltrati, il colossal della vita e delle imprese di Sandro Curzi. Lo stesso su una dozzina di schermi all’interno. Un Curzi panottico, in cinerama, da consegna, se non all’eternità, ai posteri. D’Annunzio a Fiume, Augusto sul Campidoglio, Gesù in croce e in gloria. Curzi con Togliatti, Curzi con Moro, Curzi con Brezhnev e Gorbaciov, Curzi, scendendo rapidamente, nella dispensa di Bertinotti, Curzi a Praga, Curzi con la mosca al naso e con il naso a Mosca, Curzi a Las Vegas, Curzi in salotto, Curzi sul cavallo della Rai, Curzi in tuta, Curzi in pigiama, Curzi con fiche, Curzi con la consorte, di profilo, a figura intera, nel vento, nella neve, immacolato, smagliante, svettante. La chiusa non avrebbe potuto che essere, e forse lo sarà, Curzi sepolto nel Pantheon.
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