Negli ultimi mesi, il segretario americano alla Difesa, Robert Gates, ha ricevuto molti apprezzamenti per aver ridimensionato i toni della retorica trionfalistica che aveva contrassegnato le prime fasi della cosiddetta ‘guerra al terrore’. L’enfasi da lui posta sulla necessità di “un senso di umiltà, ed un riconoscimento dei limiti” è una dolce musica per coloro che mettono in discussione la necessità di fare automaticamente ricorso ad un uso sproporzionato della forza per difendere gli interessi nazionali degli Stati Uniti.
Ma vi è un settore in cui Gates non è altrettanto modesto o consapevole dei limiti quanto egli vorrebbe che fossero i militari. Nelle sue frequenti dichiarazioni in cui afferma che l’hard power non può ottenere tutto, Gates sottolinea che ciò di cui c’è bisogno è una dose maggiore di soft power (l’‘hard power’ di un paese designa la capacità che esso ha di esercitare la propria influenza attraverso mezzi eminentemente militari, o mezzi economici coercitivi; il ‘soft power’ designa invece la capacità di esercitare la propria influenza attraverso la diplomazia, la cultura e la storia (N.d.T.) ). Tuttavia, quello che emerge è che egli intende dosi massicce di soft power interpretate, ‘confezionate’, e distribuite dal Pentagono e dalle sue ditte appaltatrici.
E’ vero che, in un discorso tenuto nel novembre dell’anno passato, Gates disse che un altro ente governativo – il Dipartimento di Stato – avrebbe dovuto ottenere più fondi per le sue attività di soft power, che includono programmi di ‘public diplomacy’, come i suoi trascurati scambi culturali ed educativi
Tuttavia, poco notata tra le molto acclamate dichiarazioni di Gates vi è la seguente affermazione: “Non fraintendetemi, chiederò ulteriori fondi per la difesa l’anno prossimo”. Parte del denaro che Gates intende spendere, come ha recentemente riferito il Washington Post, sarà dedicata ad uno sforzo triennale – con una spesa di 300 milioni di dollari – per “coinvolgere e motivare” la popolazione dell’Iraq ad appoggiare il suo governo e le politiche USA, attraverso una serie di programmi che vanno dai prodotti mediatici all’intrattenimento (un’ulteriore somma di 15 milioni di dollari all’anno dovrebbe essere spesa per effettuare sondaggi d’opinione tra gli iracheni).
Si tratta di una cifra enorme per gli standard delle politiche di soft power. Il Dipartimento di Stato prevede di spendere appena 5,6 milioni di dollari in ‘public diplomacy’ in Iraq nell’anno fiscale 2008. Il denaro del Dipartimento della Difesa sarà distribuito fra quattro società appaltatrici private, incluso il Lincoln Group il quale, sulla base di accordi con il Pentagono, pagò segretamente alcuni giornali iracheni per stampare articoli scritti dai vertici militari americani ma pubblicati come notizie di prima mano.
Alcune voci critiche si sono levate nei confronti dell’iniziativa di Gates per accattivarsi i cuori e le menti degli iracheni. Jim Webb, senatore democratico della Virginia, il cui background militare e giornalistico lo rende ampiamente qualificato a parlare a proposito dell’uso del soft power da parte del Pentagono, scrisse in una lettera a Gates: “Mentre questo paese si trova di fronte ad una crisi economica così grave, e mentre il governo iracheno registra almeno 79 miliardi di dollari di surplus derivanti dagli introiti petroliferi, secondo me ha ben poco senso che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti spenda centinaia di milioni di dollari per fare propaganda nei confronti del popolo iracheno”.
Gli specialisti di ‘public diplomacy’ sono anch’essi rimasti sconcertati dalla missione di indottrinamento di Gates. Un noto esperto mi ha scritto tramite e-mail: “La comunicazione che è vista come propaganda non attrae, e di conseguenza non produce soft power”. Le voci critiche sottolineano che i finanziamenti del Dipartimento della Difesa non sono trasparenti, e ciò potrebbe tradursi nella perdita di credibilità dei suoi programmi nel momento in cui coloro a cui tali programmi sono indirizzati scopriranno da dove viene realmente il denaro. Una cosa del genere si è indubbiamente verificata nel corso della Guerra Fredda, quando emerse che la CIA era il segreto finanziatore di riviste intellettuali che erano in precedenza considerate indipendenti. L’ambasciatore iraniano in Iraq, Kazemi Qomi, ha già espresso le proprie rimostranze: “Quattro importanti compagnie nel settore dei media stanno dando il loro contributo al piano del Pentagono di incitare l’opinione pubblica irachena contro l’Iran e di guastare i rapporti fra Teheran e Baghdad”. Una simile “propaganda anti-iraniana”, ha affermato l’agenzia di stampa iraniana FARS, è “inutile”.
La costosa iniziativa di soft power del Pentagono non è limitata ad un pubblico straniero, ma include gli stessi Stati Uniti. Essa stabilisce la necessità di “comunicare in maniera efficace con le nostre audience strategiche (vale a dire con il pubblico iracheno, con quello arabo, con quello internazionale, e con quello degli Stati Uniti) per assicurare una diffusa approvazione dei temi e dei messaggi [del governo statunitense e di quello iracheno]”. Secondo Marc Lynch, uno specialista del settore dei media mediorientali, fare del “pubblico americano…un obiettivo chiave da manipolare attraverso la diffusione segreta di messaggi di propaganda dovrebbe essere considerato scandaloso, lesivo della democrazia, ed illegale”.
Scandaloso lo è certamente, ma questa abitudine di rendere la stessa patria americana un obiettivo fa parte del modo di operare del Dipartimento della Difesa, come confermano le rivelazioni del New York Times riguardo all’uso ‘militare’ di commentatori dei media nazionali in qualità di propagandisti del Pentagono (queste attività sono attualmente soggette ad un’indagine della Commissione federale delle comunicazioni). Nulla è peggiore del cattivo uso dell’hard power, come Gates ha giustamente suggerito. Tuttavia egli non sembra disposto ad ammettere che la stessa cosa è vera anche nel caso di ciò che il Pentagono interpreta come soft power.
John Brown ha servito nello ‘US Foreign Service’, il servizio diplomatico statunitense, per oltre vent’anni; attualmente è ‘senior fellow’ presso il Center on Public Diplomacy della University of Southern California
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