giovedì 5 febbraio 2009

Obama e le guerre commerciali

Nonostante lo sforzo di Obama di presentare al mondo il volto morbido dell'egemonia americana, sulle questioni di fondo, quelle dei rapporti economici, il suo esordio appare addirittura più aggressivo di quello dell'amministrazione Bush. Molto preoccupante, a detta della maggior parte degli analisti economici, è stata l'uscita la settimana scorsa del nuovo ministro del Tesoro Usa, secondo il quale la Cina si sarebbe resa colpevole di aver manipolato la sua valuta, lo yuan renmimbi. La gravità dell'affermazione sta nel fatto che, secondo gli accordi tra Usa e Cina, in caso di manipolazione valutaria, gli Usa si riterrebbero autorizzati ad introdurre dazi per le merci importate dal paese estremo orientale. Da tempo gli Usa premono affinché la Cina rivaluti la sua valuta, che, a detta degli americani, è sottovalutata per facilitare le esportazioni cinesi.
Ma, mentre il precedente ministro del Tesoro, Paulson, preferiva assumere un atteggiamento "morbido", che prevedeva una rivalutazione graduale nel tempo, l'amministrazione Obama sembra meno disponibile a concedere dilazioni. Inoltre, i primi passi di Obama sono caratterizzati dalla ripresa del protezionismo, che per l'amministrazione repubblicana rappresentava una specie di bestemmia economica. Infatti, il pacchetto di stimolo economico anticrisi di oltre 800 miliardi di dollari che Obama presenterà al voto del Parlamento Usa è legato alla clausola del buy american, specialmente rivolta contro le importazioni di acciaio. Mentre in precedenza l'applicazione di tale norma era limitata alle spese per le autostrade, ora verrà estesa alle forniture per tutti i lavori pubblici.
Anche il sostegno finanziario all'industria automobilistica Usa è diretto ai soli produttori di Detroit, a proprietà Usa. E questo sebbene case giapponesi e tedesche abbiamo molti impianti produttivi, specie nel sud degli Usa, e sebbene ci siano casi di prodotti, come la Toyota Sequoia, che hanno un contenuto americano dell'80%, superiore ad esempio a quello della Patriot, prodotta dalla Chrysler, che, sebbene considerata americanissima, è costruita con lavoro americano solo al 60%. Di fronte al protezionismo Usa si sono levate le proteste di Ue, Australia e Canada. Di particolare interesse è stata la critica che, a Davos, è stata rivolta agli Usa da Cina e Russia. Sia Wen Jintao che Putin hanno puntato l'indice sulle responsabilità degli Usa nello scoppio della crisi. Secondo Wen la crisi è stata causata da inappropriate scelte macroeconomiche basate sul basso risparmio e sugli alti consumi, oltre che sulla eccessiva espansione di istituzioni finanziare alla cieca ricerca di profitto. Putin è stato ancora più diretto, sostenendo che la crescita globale ha subito danni perché un unico centro regionale stampa moneta senza tregua e consuma ricchezza materiale, mentre altri centri producono merci a buon mercato. Una chiara allusione agli Usa che hanno accumulato un enorme debito commerciale estero (specie con l'estremo oriente) e lo finanziano stampando carta (dollari), contando sul fatto che il dollaro ricopre il ruolo di moneta internazionale.
Inoltre, gli Usa finanziano con la vendita di titoli del tesoro in dollari anche il loro enorme debito pubblico federale. Non a caso sia Wen che Putin rivendicano una migliore regolazione delle varie valute di riserva e lo sviluppo di "molteplici valute di riserva regionali in aggiunta al dollaro". Molto interessante è stata anche la convergenza tra Cina e Germania, la cui cancelliera Merkel oltre ad esprimersi contro il protezionismo Usa ha rivendicato per l'Onu anche un ruolo di supervisione economica mondiale, con la costituzione di una sorta di Consiglio generale economico. La direzione presa dall'amministrazione Obama sembra rivolta ad accentuare la politica del passato, basata sull'ottenere finanziamenti dai paesi con grandi surplus commerciali. Ricordiamo che i maggiori possessori di titoli di stato Usa sono Giappone, Cina, Brasile e Russia e che il tesoro Usa si appresta a immettere sul mercato 2mila milardi di dollari in titoli di stato per finanziare le enormi spese anticicliche. Solo che, a differenza del passato, questo drenaggio finanziario, oltre ad aggravare la già pesante situazione di squilibrio nei conti mondiali, non verrebbe neanche compensato con l'acquisto Usa delle merci dei paesi finanziatori.
Per la Cina in particolare il protezionismo si concretizzerebbe in una vera guerra commerciale. Ad esempio, suo è il 30% dell'acciaio importato dagli Usa. Già oggi, inoltre, il Pil cinese è decresciuto sensibilmente, e sono sempre di più gli operai che lasciano le zone industriali per ritornare nelle campagne, con conseguenze estremamente pesanti per lo sviluppo del Paese. Dietro la retorica "universalistica" e "messianica" del discorso d'insediamento di Obama si delinea il fermo proposito di far pagare la crisi al resto del mondo, dopo averla scatenata con la pratica dell'indebitamento, riaffermando una egemonia che però non ha più le basi economiche di un cinquanta anni fa, quando gli Usa contavano da soli il 60% dell'export e il 50% del Pil mondiale. Guerre commerciali e difesa ad oltranza del ruolo unico di valuta internazionale da parte del dollaro non fanno presagire nulla di buono. Anche considerando che le guerre commerciali ed il protezionismo storicamente non hanno mai favorito la pace tra i Paesi.
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