lunedì 14 giugno 2010

Dieci tesi contro Il revisionismo storico e il novello Maccartismo italico

L’inizio dei festeggiamenti sui 150 anni dell’unità d’Italia, sono stati caratterizzati da una polemica politica innescata dalla Lega Nord. Il dibattito verteva sulla positività o meno dell’unificazione dell’Italia e sull’opportunità dei festeggiamenti medesimi. Questo episodio si presta ad una riflessione più ampia sul rapporto tra storia e politica nella formazione dell’immaginario collettivo; rapporto a mio parere strettissimo, denso di significati che vanno al di la della contingenza. Per certi versi si potrebbe dire che il rapporto con la storia del paese parla delle prospettive strategiche delle diverse forze politiche e culturali molto più di quanto non avvenga attraverso le proposte politiche avanzate quotidianamente. Non a caso la storia d’Italia è teatro di scorribande revisioniste che riscrivono e stravolgono la storia del paese. E’ come se nelle posizioni politiche presenti in Italia da parte della destra, vi fosse una “eccedenza”, un “non detto”, che non viene direttamente esplicitato, ma che viene espresso in modo allusivo attraverso la riscrittura della storia del paese. Riscrittura della storia che ovviamente serve a modificare il paese o meglio, a costruire le giustificazioni storiche di una sua modifica.

Proviamo a vedere meglio:

1) Da anni è in corso una profonda riscrittura della storia del paese. I soggetti che operano questa falsificazione sono coloro che hanno guidato o accompagnato la restaurazione in Italia dopo il ciclo di lotte degli anni ’70. In particolare i soggetti che sono cresciuti e si sono sviluppati nell’ambito di quella vera e propria rivoluzione conservatrice che è in corso in Italia da 3 decenni e che ha trovato un significativo punto di sintesi nella costruzione della seconda repubblica bipolare. Questo non significa che tutti coloro che partecipano a questa grande opera di falsificazione lo facciano sugli stessi temi, con gli stessi argomenti e con finalità completamente coincidenti. Bossi, La Russa, Pansa e i grandi giornali borghesi non hanno gli stessi obiettivi. Tutti si collocano però all’interno di quella grande corrente di restaurazione anticomunista che ha caratterizzato la Seconda Repubblica.

2) Di questa grande operazione revisionista si possono grosso modo individuare le tappe progressive. In origine troviamo la contrapposizione del movimento del ‘77 (cattivo) ad un ’68 buono e un po’ romantico. Poi la rottura del biennio rosso 68/69, in un 68 ricordato e in un 69 operaio seppellito nell’oblio fino a cancellarne il ricordo. I libri sul ’69 operaio si contano sulle dita di una mano. Successivamente, si passò a trattare del 68 come della culla di incubazione del terrorismo per poi arrivare all’osso più succulento: la resistenza. Da un lato la polemica sul triangolo della morte, dall’altra l’apertura di Violante sulla necessità di capire le ragioni dei repubblichini fino alla enorme mistificazione compiuta sulle foibe. Il tutto sostanzialmente teso alla demolizione della resistenza come “mito fondatore” della repubblica e quindi alla demolizione dell’antifascismo come religione civile del paese. Non tragga in inganno il fatto che l’equiparazione tra partigiani e repubblichini non viene fatto sul piano politico ma morale: il punto è proprio mettere in discussione l’autorità morale della resistenza perché nella rarefatta riscrittura della storia nessuno è così deficiente da rivendicare la bontà della guerra hitleriana. Anzi, a ben vedere sul piano morale, partigiani e repubblichini non vengono equiparati. Il fatto che i “giovani” repubblichini combattessero dalla parte perdente permette di presentarli come moralmente superiori ai partigiani che dopotutto – secondo questa ricostruzione – erano poco più che degli opportunisti schieratisi all’ultimo minuto con i vincitori. Questo declassamento del valore morale della resistenza, ha permesso una riscrittura della storia del paese che vede nella drammatica vicenda delle foibe probabilmente le maggiori falsificazioni.

Secondo questa riscrittura, la democrazia non è nata dalla lotta partigiana ma nonostante la lotta partigiana. Solo la presenza dell’esercito statunitense ha impedito ai partigiani di instaurare nel paese una feroce dittatura comunista. Secondo questa vulgata, la liberazione del paese non è più la liberazione dal nazifascismo ma la liberazione – attuata dagli alleati – dal rischio di dittatura comunista in Italia.

3) Questa riscrittura della storia del paese non è casuale e non è episodica. Partiti, giornali, conduttori TV si sono sperimentati su questo terreno che non ha nell’accademia la sua punta di diamante. E’ infatti evidente che il revisionismo non passa attraverso la contestazione scientifica della verità storica: passa attraverso la sua falsificazione. Scrivere un libro diventa un modo poco efficace di riscrivere la storia perché la carta stampata può essere sottoposta ad una verifica scientifica che può facilmente sbugiardare i lazzaroni. La riscrittura della storia non è quindi in primo luogo un esercizio accademico ma passa attraverso una azione non episodica di trasferimento sul piccolo schermo della costruzione della memoria del paese. La verità storica lascia il posto al commento distorcente in cui verità e menzogna si mischiano fino a produrre una nuova storia. Il fatto che in televisione si possa sostenere in contraddittorio una tesi falsa senza che questo abbia ricadute, perché il giorno dopo si parlerà di altro, trasforma il piccolo schermo, nella sua produzione istantanea di notizie, di fatti, di emozioni, nel luogo privilegiato della falsificazione della storia. Quella nuova storia che fa dire a molti studenti che la strage di Bologna è stata fatta dalle Brigate Rosse, cioè dai comunisti.

4) La riscrittura della storia del paese ha evidentemente obiettivi immediatamente politici. Se la resistenza non è moralmente ineccepibile e chi ha combattuto in realtà voleva sostituire una dittatura con un’altra, è evidente che la nostra Costituzione non è scritta con il sangue di quei giovani eroi ma è costruita sull’acqua. Se la Costituzione non è il frutto maturo del riscatto del popolo italiano, può tranquillamente essere cambiata. Se la costituzione non è il portato dell’anelito alla libertà di un popolo, ma rappresenta un compromesso obbligato tra assassini comunisti e amici dei militari alleati, è evidente che quella costituzione non vale nulla: se ne può fare un’altra. Così come la contestazione dell’unità d’Italia serve a fare il federalismo, a distruggere i contratti nazionali di lavoro, a permettere il secessionismo dei ricchi, che è il vero programma politico della Lega. Così come l’attacco al ’68/69 serve a demolire lo Statuto dei lavoratori e ogni diritto del lavoro. Potrei proseguire ma ogni lettore è tranquillamente in grado di proseguire da se nell’elencazione degli esempi.

5) La riscrittura non ha però solo obiettivi politici immediati. Riguarda la “longue duree” su almeno due aspetti: in primo luogo punta ad espellere il comunismo e il tema dell’alternativa di sistema dalla storia dell’Italia passata presente e futura. In secondo luogo punta a circoscrivere il conflitto di classe alla preistoria del movimento operaio, ad un fatto passato ma oramai estinto. A tal fine cruciale è il passaggio di regime tra il fascismo e la “repubblica democratica fondata sul lavoro”. Tutto il percorso revisionista si presenta infatti – in nome della “pacificazione nazionale” – come la scoperta coraggiosa e dolorosa di una “verità” troppo a lungo tenuta celata dai vincitori del 45. La riscrittura della storia viene presentata come il ristabilimento della verità che assume il valore di una operazione catartica necessaria per poter finalmente accedere ad una “pacificazione nazionale” – per dirla con Fini – che espunga dalla storia patria i due poli che si sono scontrati: il fascismo da un lato e il comunismo e il conflitto di classe dall’altra. Poco importa che uno abbia portato il paese in guerra a fianco dei nazisti e gli altri abbiano costruito la democrazia in Italia. L’obiettivo strategico del revisionismo è la parificazione del comunismo al nazismo al fine di poter espiantare dall’oggi e dal domani del paese ogni possibile alternativa al capitale. Il conflitto di classe è assimilato al comunismo perché, secondo la vulgata revisionista, le classi hanno interessi comuni e il rapporto del sindacato con governo e padroni deve essere “complice”. Chiunque valorizzi la lotta di classe è quindi un distruttore, un sovversivo e un nemico della democrazia, cioè, in ultima istanza, un comunista. Secondo la vulgata oggi egemone, i lavoratori si possono difendere ma non devono porsi l’obiettivo di operare come classe dirigente perché altrimenti diventano immediatamente comunisti, cioè sovvertitori dell’ordine naturale. Ovviamente, da questo punto di vista, Chi vuole modificare il corso naturale delle cose non può che essere barbaro e retrogrado. Uno dei frutti più mefitici che sono germogliati a partire da questo revisionismo storico è proprio l’aver trasformato l’Italia in un paese sostanzialmente Maccartista. Un paese in cui la parola comunista ha solo due significati: una presa in giro o un insulto. Il revisionismo storico fa da sfondo ad una operazione politica e ideologica – di cui molta parte del centro sinistra è protagonista – che vuole cancellare come una parentesi la gigantesca opera teorica e politica di Gramsci e poi del PCI, di aver fondato la legittimità dell’ipotesi comunista nella storia, nella carne e nel sangue del popolo italiano.

6) Alla luce di quanto sopra esposto, si può affermare che in Italia non esiste una memoria condivisa della storia del paese. Non esistono “miti fondatori” effettivamente condivisi. Lo è stato per lungo periodo la resistenza ma oggi non lo è più, come non lo è l’Unità d’Italia. In questa assenza di miti fondatori condivisi, possiamo individuare due narrazioni “principali” del paese: la prima vede nel fascismo una fase barbarica, nella liberazione la resurrezione anche morale del paese, nella lotta del movimento operaio il compimento delle liberazione, nel 68/69 il punto forse più alto di questa storia patria e nella successiva offensiva reazionaria un ritorno a molti degli aspetti barbarici del fascismo. E’ stata la narrazione egemone fino agli anni ’80 ed ha costruito il contesto in cui si è sviluppata la sinistra ed è cresciuta la civiltà del paese. L’altra narrazione vede nel fascismo un regime discutibile ma utile al paese, che ha avuto l’unico torto di andare in guerra con i nazisti. Vede nella resistenza il tentativo di instaurare una dittatura comunista nel paese, evitata solo dalla presenza dell’esercito alleato; vede gli anni 50 e 60 come quelli del miracolo economico guidati dalla grande industria, miracolo interrotto dalle disgraziate lotte degli anni 70 che hanno imbarbarito il paese, prodotto il terrorismo e gonfiato l’esercito dei pubblici fannulloni. A questa barbarie si sta lentamente mettendo mano con il ripristino dell’ordine basato sul lavoro duro, per quanto sganciato dai valori morali tradizionali o da una qualche forma di etica pubblica. Questa seconda narrazione non è propria solo della desta politica in senso stretto; ha sempre caratterizzato la “maggioranza silenziosa”, gli Arisio che guidavano la marcia dei 40.0000 alla FIAT come larga parte dei votanti il PdL. Molti degli intellettuali che scrivono sulla grande stampa, pur non condividendo pienamente la seconda narrazione, sono decisamente impegnati a cancellare la prima. Questo in un contesto in cui il tentativo di cancellare la “narrazione” del movimento operaio, dei comunisti e delle comuniste, ha come unico effetto quello di legittimare l’altra lettura come quella “vera”, oggettiva. Il punto che mi preme sottolineare è come la narrazione oggi egemone e fatta propria dalle classi dominanti, non abbia alcun fondamento democratico, non ha alcun “mito fondatore” che abbia qualcosa a che vedere con la costruzione della democrazia moderna.

7) Questa assenza di una memoria condivisa del paese e il fatto che le classi dominanti ed in particolare il berlusconismo si collochino in continuità con il sovversivismo delle classi dirigenti che ha portato al fascismo, spiega molto della differenza tra la destra italiana e le destre europee. La destra inglese, come la destra francese o quella tedesca sono destre antifasciste e considerano la guerra antifascista un tratto fondante la loro identità. Non a caso Chirac nel 1997 preferì perdere le elezioni per l’assemblea legislativa contro Jospin piuttosto che allearsi con Le Pen, considerato giustamente “esterno” alla dialettica costituzionale. In Italia la destra di governo non ha veri confini politici a destra perché con la destra neofascista non ha chiare linee di demarcazione nella individuazione dei propri riferimenti storici. Non esiste una fondazione democratica a base di massa della destra italiana.

8) La distruzione della memoria democratica e di classe originata dalla lotta partigiana – che ha plasmato il secondo dopoguerra – ha determinato un totale spaesamento delle classi lavoratrici ed in generale delle classi subalterne. Queste, private della legittimità della narrazione della loro storia, restano in balia delle narrazioni dell’avversario, delle subculture televisive fondate sul consumo e sull’apparire, delle subculture tradizionali e postmoderne legate al territorio. Il processo che ha portato allo scioglimento del PCI e che lo ha seguito, non è stato solo un fatto politico relativo ad un partito ma la distruzione della legittimità della memoria storica di un popolo, il popolo della sinistra e delle lotte per l’emancipazione del movimento dei lavoratori. Il voto operaio alla Lega Nord o l’astensionismo operaio (che rappresenta il fenomeno più consistente) sono certo dovuti ad elementi politici di fase ma hanno la loro radice nella dissoluzione della comunità operaia che non è stata solo sconfitta sul campo ma anche privata delle proprie radici e delle proprie ragioni. Da questo punto di vista un contributo non irrilevante alla dissoluzione della sinistra e della classe operaia italiana è stata data proprio dal ripudio delle proprie radici messo in campo dal gruppo dirigente che ha sciolto il PCI. Quella scelta, lungi dall’aver liberato energie nuove, ha disarmato la propria gente. Anche per questo lo scioglimento del PCI – oltre ai problemi di linea politica – non ha dato luogo ad un salto nello sviluppo civile del paese ma ad una sua regressione. Si badi che questa dissoluzione culturale non è propria di tutti i gruppi dirigenti della sinistra moderata in Italia e nel mondo. Zapatero, che pure ha fatto politiche neoliberiste, ha costruito la sua legittimazione nella rivendicazione diretta della repubblica del ’36, contro il clericalismo e contro il falangismo del generale Franco, di cui continua l’abbattimento sistematico delle statue. Il socialista Jospin non si è fatto scrupolo di rivendicare addirittura la scelta della diserzione nella prima guerra mondiale, riallacciandosi al tenue filo di antimilitarismo rimasto nelle fila socialiste. Nella cerimonia di insediamento di Barak Obama, il concerto è cominciato con Bruce Springsteen che cantava con Pete Seeger (comunista) la canzone di Woody Guthrie (comunista) “This land is your land”, che è un vero inno del movimento antirazzista e progressista americano. Solo in Italia la demenza nichilista e trasformista della parte maggioritaria della sinistra – con qualche complicità anche della sinistra di alternativa – ha dissolto completamente la memoria di chi ha lottato per la libertà e la giustizia.

9) Si tratta quindi di contrastare il revisionismo storico imperante non solo come compito culturale ma come compito immediatamente politico. Si tratta di ricostruire la legittimità storica e morale della presenza comunista in questo paese. Non sembri una cosa di poco conto. In America Latina, dopo che negli anni ’70 un generazione di militanti rivoluzionari è stata massacrata dalla repressione militare, il movimento di trasformazione sociale si è ricostruito anche a partire dalla fondazione della legittimità storica e nazionale della propria proposta politica. Non sarà mica un caso che in Nicaragua si sia riscoperto Sandino, in Messico Zapata, in Venezuela Simon Bolivar, in Bolivia il comunitarismo indigeno. La messa in discussione della lettura della storia della nazione come “comunità di destino” – organicisticamente determinata – e l’innervamento della lotta per il socialismo nella storia del paese – pensata da Gramsci e poi praticata dal PCI nel dopoguerra – è stata integralmente ripercorsa dai movimenti latinoamericani come retroterra necessario per la propria proposta politica.

10) Ricostruire quindi su basi di massa la legittimità storica, culturale, politica e morale della proposta comunista in questo paese. Questo è il compito che abbiamo dinnanzi. Non è l’unico, ma è un punto necessario, senza il quale ogni proposta politica rischia di rimanere muta perché non connessa ad una narrazione che la inserisca dentro una storia. In assenza di una prospettiva storica che colloca la nostra azione in un prima e in un dopo, in cui il confronto non è solo con il presente ma anche con le esperienze, gli insegnamenti e la moralità del passato, è impossibile costruire una narrazione forte che dia un senso alle azioni che facciamo. Il dominio del presente produce la riduzione della vita ad una successione di avvenimenti su cui misurare in modo immediato tutta la validità o meno di una ipotesi politica. Non a caso in questo dominio del presente cresce la domanda di populismo, in cui l’identificazione con il capo costituisce l’unico modo per valorizzare il vissuto attraverso una identificazione emozionalmente rilevante. Non si tratta di riavvolgere il filo della storia, operazione impossibile. O di pensare che basta fare la battaglia sulla verità storica per riprendere peso politico. Si tratterebbe di una pericolosa illusione. Si tratta semplicemente di capire che la nostra proposta politica – da elaborare a partire dalla concreta condizione sociale e culturale di oggi, nei linguaggi e nelle forme di comunicazione odierne – è muta se non ha una prospettiva storica. La definizione di una prospettiva storica chiede necessariamente il riconoscimento, la rivendicazione e in ultima analisi la definizione della “propria storia”. Non si deve pensare che l’effimero non abbia la sostanza: dietro alle veline di Berlusconi ci sono secoli di storia patria, dal “panem et circenses” alla doppia morale della controriforma, al fascismo. Ricostruire quindi un rapporto con la nostra storia come condizione per guardare in avanti, perché, per dirla con Benjamin: “Il soggetto della conoscenza storica è di per se la classe oppressa che lotta. In Marx essa figura come l’ultima classe resa schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera di liberazione in nome di generazioni di sconfitti. Questa coscienza, che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega si Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare quasi del tutto il nome di un Blanquì, il cui suono squillante aveva scosso il secolo precedente. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future. E recise così il nerbo della sua forza migliore. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrificio. Entrambi infatti si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”.

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