«Molte delle aspettative e delle speranze che gli americani hanno riposto in Barack Obama per superare la disastrosa crisi economica, verranno presto disattese. La sua elezione alla presidenza degli Stati uniti costituisce per tutti un gran sollievo dopo gli anni bui di George W. Bush e Co. Ma l'illusione di un partito Democratico come veicolo per un cambiamento significativo e di una vera trasformazione strutturale di questa società devono essere accantonate». E' con questa analisi radicale, fatta a poche settimane dall'elezione di Obama, che inizia l'intervista con Stanley Aronowitz docente alla City University di New York. Aronovitz, tra i più acuti analisti marxisti della società americana, autore e saggista, candidato per le elezioni al governatorato di New York nel 2002, è stato leader sindacale fra i più temuti dall'industria metallurgica durante le lotte degli anni Ottanta. È autore di un nuovo «Manifesto», pubblicato e distribuito in ottobre, per la formazione di una nuova sinistra radicale in America.
Qual è la sua lettura della grave situazione economica americana, paragonata alla depressione degli anni Trenta?
La crisi economica è solo il sintomo della crisi finanziaria profonda del sistema capitalista americano che si protrae da oltre vent'anni. Le soluzioni adottate dal governo sono mirate a tamponare i sintomi, ma non a sanare i guasti né le cause strutturali che hanno determinato questo meltdown dell'economia.
Che cosa non ha più funzionato?
L'esplosione della bolla dell'intero sistema finanziario americano, così come in parte in Europa occidentale, è la conseguenza dei seguenti fattori: una politica economica di massiccia deindustrializzazione; la deregolamentazione del mercato e l'assenza di limiti e controlli da parte istituzionale. Questo è stato l'andamento dall'era Reagan in poi. L'economia americana, e penso valga anche per l'Europa, ha mirato alla creazione di capitale fittizio, non legato all'economia reale. Le banche hanno distribuito carte di credito a chiunque fosse stato disponibile ad incentivare i consumi, che oggi ammontano al 72 per cento del Pil. L'indebitamento di una intera fetta della classe media americana e la scomparsa progressiva dei lavori di produzione interna agli Usa, rimpiazzata da una economia di servizi dal salario dimezzato, tutti questi elementi hanno mandato in tilt l'intero sistema fiscale americano e conseguentemente l'intero sistema economico.
Il governo è intervenuto con 750 miliardi di dollari per salvare il sistema bancario. Quali saranno le conseguenze per milioni di cittadini tassati, ma sul lastrico?
L'obiettivo è salvare il sistema finanziario dalla bancarotta. Si persegue una politica monetaria e non fiscale a discapito della «middle class». Gli ultimi dati parlano di ben 37 milioni di americani sotto la soglia di povertà e, si prevede, la cifra salirà a 50 milioni. Stiamo vivendo un replay della politica economica instaurata durante gli anni Venti dai «Robber Barons». Le conseguenze sono la decimazione di decine di migliaia di posti di lavoro in tutti i settori, con una disoccupazione destinata a salire all'11% in futuro e una discesa vorticosa dei consumi.
I governi europei invocano il ripristino di forti regolamentazioni del mercato. Qual è la posizione degli Usa?
Da parte del governo non c'è alcuna intenzione né volontà di tornare a imporre nuove regole al mercato, contrariamente a quanto accade in Europa dove esiste in parte ancora un'idea di «contratto sociale».
Il presidente Obama promette limiti al processo di deregolamentazione. Ci sarà un nuovo new deal?
Obama adotterà delle misure correttive al sistema economico, ma sarà troppo poco e troppo tardi. Il progetto di programmazione economica promesso non è sufficiente per invertire la spirale negativa della grave situazione economica.
Ritiene quindi illusorie le aspettative di chi auspicava un cambiamento strutturale della societa americana con minori iniquità e più giustizia sociale?
Gli Stati uniti perseguono una politica monetaria e non fiscale con massicci investimenti nel settore delle infrastrutture fatiscenti, aumento dei sussidi di disoccupazione, dell'assistenza sanitaria, dell'educazione e soprattutto una politica del pieno impiego. Ritengo che questo continuerà con Obama. E' una politica economica che risale alla presidenza di Nixon e alle misure che, nel l971, abolirono gli accordi di Bretton Woods: abbassamento dei tassi bancari per attrarre capitali esteri; interventi di aiuto alle banche e alla General Motors. Modificare questa posizione significherebbe ammettere il fallimento del sistema capitalista. Negli ultimi sessanta anni, anche se il sistema capitalista era in declino, attraverso un'economia dalla base fittizia è riuscito a incrementare in maniera esponenziale i consumi. La massa si è illusa di poter soddisfare i propri bisogni essenziali, al punto che persino le forze alternative di sinistra non potevano assumersi il ruolo anticapitalista, perché si scontrava con la percezione generalizzata, anzi globalizzata, che il sistema funzionava.
In questo contesto fallimentare che può fare Obama?
Il trend generale della posizione americana non sarà il new deal di Roosevelt. Richiederebbe un intervento programmatico, investendo tutti i 750 miliardi di dollari serviti per salvare le banche, nelle infrastrutture del sistema. Invece l'utilizzo delle nostre tasse serve per continuare ad oliare la politica monetaria del sistema. L'elezione di Obama rappresenta una ventata di sollievo dagli anni bui di Bush, ma un Democratico a guida del paese non è detto significhi un'opposizione radicale al sistema vigente.
Perché pensa questo?
I leader preposti ai dicasteri e già scelti da Obama sono gli stessi che rappresentano le posizioni di centrodestra del partito Democratico, in continuità con la deregolamentazione perseguita da Clinton. La spinta per un vero cambiamento strutturale non ha rappresentanza istituzionale, sebbene nella società civile esistano vari movimenti alternativi molto attivi.
Per la sua esperienza personale lei conosce bene i sindacati, che ruolo avranno?
La prospettiva dei sindacati americani oggi è quella di andare a braccetto con gli stessi datori dell'industria. Sono tornati alla vecchia posizione di collaborare con l'industria, né più né meno di quanto avveniva negli anni Venti. Si sono trasformati in «Company-Unionism», come di diceva in quel periodo. Di fatto il 40 per cento della classe operaia dello stato dell'Ohio industriale si era schierato inizialmente per Mc Cain non per Obama.
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sabato 3 gennaio 2009
«Nessun new deal» Le illusorie speranze riposte in Obama
Pubblicato da amaryllide alle 00:28
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